L'incubo
Una storia d'amore puro

Prologo


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Il purgatorio scorreva monotono, grigio, interrotto solo a tratti dalle bracciate di qualche disperato che annaspava verso la riva opposta. Ma erano momenti, poi sparivano inghiottiti dalla fissità dei flutti. Pareva quasi una lastra di metallo, fredda e dura, su cui posare i piedi con sicurezza.

In effetti, loro potevano farlo.

Morte lanciò nel fiume il mozzicone di sigaretta e subito se ne accese un'altra.

Il Tristo Roditore, seduto al suo fianco, mordicchiava qualcosa, condividendo con la collega quel momento di riposo.

«Cosa stai rosicchiando?» chiese lei, senza una reale curiosità.

«Un osso.»

«Tuo?»

«No, non so di chi è» rispose lui osservando il bastoncino biancastro.

«Perché lo fai?»

«Devo, altrimenti i denti mi crescono a dismisura. È davvero fastidiosa questa recrudescenza di vita, un impiccio del tutto inutile. Immagino che tu fumi per lo stesso motivo?»

Morte rimase in silenzio, saggiando la consistenza della sigaretta tra le dita. Era una vera sigaretta, con del vero tabacco di ottima qualità, ma lei poteva apprezzarne solo quello, la consistenza. E il calore del fumo tra i denti.

«Più o meno» rispose.

Un tonfo interruppe i loro pensieri. L'anima di un derelitto arrancava verso la loro riva, quella sbagliata, proprio lì di fronte. Allungando le mani supplicò aiuto. Morte e il Tristo Roditore scossero all'unisono il capo. Quello insistette finché un vortice lo risucchiò. Nessuno poteva più avvicinarsi alla riva di partenza.

«C'è però una cosa che mi manca dell'essere vivo» riprese il Tristo Roditore. «Non che sia mai stato vivo, ovvio, però quando li vedo che s'ingozzano di formaggio, con i baffi tutti luridi e la bavetta alla bocca, ecco, in quei momenti lì rimpiango di non avere il gusto. È assurdo, mi crescono i denti ma non posso nemmeno sentire il sapore di quello che rosicchio» protestò vivamente.

«È perché non hai la lingua.»

In lontananza arrivava lo sciabordare del traghetto e un canto mesto ma melodioso. Qualcuno era di buon umore, chissà perché.

«E a te manca qualcosa dell'essere viva? Cioè, la vorresti? Perché è chiaro, neanche tu sei mai stata viva, ma ecco… sì, insomma, hai capito.»

Morte lasciò cadere le parole del Tristo Roditore nel vuoto, e attese un momento di vero silenzio per rispondere: «L'amore.»

«Oh, è una cosa grossa» disse lui, dopo un improvviso attimo di stupore.

«Sì.»

Il Tristo Roditore diede gli ultimi morsi al suo ossicino, fissando come ipnotizzato una mano che si agitava fuori dalle acque.

«Quando li prelevo, ciò per cui si disperano di più o che più li conforta, è l'amore. Sì, qualcuno rimpiange il potere, quasi nessuno il denaro, ma tutti sospirano almeno un momento per un amore perduto. E gli unici che non lo fanno sono coloro che, grazie a me, sperano di riabbracciarlo quell'amore.»

«Confesso, faccio fatica a capire. I miei più che volersi riprodurre in continuazione non è che fanno, ma da come ne parli sembra una forza molto potente.»

«È la più potente.»

Uno schiocco lontano annunciò loro l'attracco del traghetto. Presto avrebbero dovuto consegnare un nuovo carico. Ma non si lasciarono prendere dall'ansia, in fondo per loro il tempo non aveva alcun significato.

«Certe anime si rifiutano categoricamente di andare Oltre e abbandonare la loro gemella. Restano lì in attesa di attraversare insieme.»

Il Tristo Roditore sputacchiò alcuni rimasugli del suo spuntino. «Beh, è una cosa che ti capita spesso, a dire il vero…»

«È diverso. Le anime che rifiutano la realtà, o che ne sono sconvolte, restano senza consapevolezza. Un'anima che ha perduto l'amore resta con uno scopo.»

«Anche quello strego…»

«Non. Pronunciare. Quella. Parola.»

Il Tristo Roditore sentì un'onda di gelo attraversarlo. «Va bene, scusa. Scusa.» Rimase ancora un po' seduto poi si rassegnò a riprendere il lavoro.

«Lo scopo di un'anima in amore è ben diverso, non c'è solo un egoistico desiderio di restare attaccata alla vita. No, c'è il rimpianto di non poter più ricambiare, di non poter proteggere e consolare. Poi c'è la rabbia e la paura d’essere sostituita da una contendente cui non puoi contrapporti. E c'è l'amore, che pulsa nel profondo incessantemente, incondizionatamente. Queste anime vivono anche dopo la morte, vivono nonostante la morte.»

Il Tristo Roditore raccolse la sua falce e fissò la collega con curioso stupore. «A sentirti sembra che tu l'abbia provato.»

Morte non reagì subito, ma prima che lui se ne andasse scosse lieve il capo.

«Però l'hai visto, cioè, qualcuno che hai prelevato di recente?»

«Già» disse Morte alzandosi e gettando il mozzicone nel Purgatorio.

«Non mi dirai com'è andata, vero?»

«No, non credo» rispose lei raccogliendo a sua volta la propria falce.

«Peccato, sarebbe stata una bella storia da raccontare.»

«E da quand'è che te ne vai in giro a raccontare le storie degli umani?»

Il Tristo Roditore tossicchiò nervoso: «Non è che me ne vado in giro… era così, un discorso ipotetico. Pensavo che se avessi qualcuno cui raccontare una storia, questa poteva essere interessante.»

La luce si aprì davanti a loro, abbagliante, ma non ebbero bisogno di proteggersi la vista. D'altronde non vedevano con gli occhi. Morte però si voltò a guardare ancora una volta il Purgatorio. Da lì era poco più d’una infinita riga che delimitava un infinito orizzonte. Suo malgrado dovette dar ragione al Tristo Roditore: sarebbe stata una gran bella storia.

L'incubo
Una storia d'amore puro

1. Sogno dell'ennesima notte d'estate


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È in un prato. L'erba è d’un verde brillante, quasi accecante, squarciato a tratti regolari da macchie bianche: sono margherite, con lunghi e pesanti petali, e sembrano disegnare una geometria precisa. Il cielo sopra di lei è intenso, d'un azzurro quasi opprimente, anche lui segnato dal bianco: sono nubi lunghe e strascicate quelle che lo solcano con precisione.

È sola in quel prato ma non è la solitudine a renderla inquieta. Per una quattordicenne cresciuta in campagna i campi di maggese sono una seconda casa, le margherite gioielli preziosi, eppure non si sente a suo agio. Per scacciare quel senso di malessere si siede nell'erba e inizia a raccogliere i fiori per farne una coroncina. La gonna ampia si gonfia intorno a lei formando una corolla di stoffa gialla, e l'idea d'essere un fiore gigante la sfiora e la fa sorridere.

Ma non è una sua idea. Qualcuno le ha appena detto che sembra un fiore, la regina dei fiori.

Alza la testa verso quella voce che non ha sentito. Non c'è nessuno.

Riprende il suo lavoro e per scacciare il malessere canticchia una canzoncina. Le note le escono fluide dalla bocca chiusa, mentre gli steli s'intrecciano tra le sue dita. Non ricorda dove ha sentito la canzone, eppure riesce a interpretarla senza il minimo intoppo. Ma non è la sua voce che sta intonando il motivetto.

Alza di nuovo la testa, gira lo sguardo, e la vede. In fondo al prato c'è una ragazza bionda vestita di viola. Non riesce a distinguerne i tratti da quella distanza ma sa di conoscerla. È lei che canta e appena si rende conto d'essere stata scoperta le lancia un cenno di saluto.

Lei ricambia con riluttanza. Non sa perché, non ha niente contro quella ragazza, ma tutto sommato avrebbe preferito restare sola.

Riprende a intrecciare le margherite ma non fa in tempo a chinare il capo che l'altra è già al suo fianco. La prima cosa che nota è la ricchezza dell'abito, la finezza delle cuciture e dei ricami, gli sbuffi e la gonna ampia senza eccessi. Poi vede lei, il suo volto candido in cui gli occhi neri spiccano ancora più profondi, le labbra sottili rimarcate dal minio, e quei capelli dorati che le scendono come una cascata sulle spalle. È bella e sembra gentile, dietro il suo sorriso non c’è la cattiveria che troppo spesso ha visto nelle nobili, o l'invidia che si cela nelle altre ragazze giù al villaggio. Sembra così felice.

Senza neppure rendersene conto la sta già seguendo, le tiene la mano mentre lei sorridente la conduce lungo il prato. Si sta divertendo ma non smette di sentirsi inquieta, come se ci fosse qualcosa di sbagliato. La ragazza la guida verso un boschetto limitrofo al campo, pochi alberi che formano una macchia scura e riservata. Lei non vorrebbe andarci ma non riesce a dirle di no.

In un attimo il cielo scompare sostituito dalle fronde dei grandi tigli. L'ombra le si incolla addosso come un insulso timore. Pianta i piedi a terra e smette di avanzare. L'altra la guarda e il suo volto pallido è quasi luminescente nell'oscurità del sottobosco.

Le chiede di seguirla, le dice che sarà bello.

Lei non vuole. Lei non le crede.

Le chiede di fidarsi, le dice che non se ne pentirà.

Lei non vuole. Lei ha paura.

Le chiede di non lasciarla, le dice che l'aspetterà.

E intorno a loro tutto si è fatto scuro, e solo la ragazza è rimasta colorata, una grande macchia viola col viso pallido e una cascata di capelli biondi. E gli occhi più neri della notte.

Ora la paura è diventata terrore. Si volta e comincia a correre.

Ti aspetterò qui, domani ti aspetterò nel nostro posto.

Corre ancora più veloce, eppure le sembra di non muoversi.

Ti aspetterò anche dopodomani e il giorno dopo ancora, sempre qui.

Il freddo del panico le parte dal ventre e le stringe le gambe e le braccia, ma continua a correre, correre, correre.

Ti aspetterò qui, per sempre.

Con un piccolo urlo accoglie la caduta nel vuoto finché finalmente aprì gli occhi. La notte famigliare della sua stanza la circondò, un frinire di grilli, il movimento di suo marito lì vicino. Si strofinò la faccia madida di sudore.

«Magda, che succede?» le chiese l'uomo.

«Un incubo.»

Lui intontito dal sonno fece per voltarsi dall'altra parte.

«Di nuovo quello, porco Abàtar» imprecò lei.

L'uomo fece uno sforzo e si puntellò sui gomiti mettendosi seduto: «Quello che annuncia l'inizio della raccolta dei pomodori?»

«E quale sennò?»

«Ma da quanto tempo va avanti?» chiese strofinandosi gli occhi, per vincere la stanchezza e l'incredulità.

«Più di vent'anni, ero ancora una ragazzina, Abàtar cane» bestemmiò la donna scendendo dal letto per raggiungere una caraffa d'acqua sul comò.

«E non hai mai fatto qualcosa? Cioè, non è normale fare per più di vent'anni sempre lo stesso sogno. Fortuna dura solo una decina di giorni…»

«E che non c'ho provato? All’inizio mia mamma aveva anche chiamato un prete, ma questo più che infilarsi nel mio letto con la scusa di Babuz non ha fatto!»

«Si vede che eri una bella topolona già allora» provò a distrarla con un complimento.

«Bah, sembravo un scheletro, c'avrò avuto trenta chili in meno» ringhiò lei ingollando un sorso d'acqua.

«Comunque dobbiamo fare qualcosa, ogni anno in questo periodo sei uno straccio per colpa di quel sogno.»

«Dal prete non ci torno, Abàtar boia.»

«Magari puoi provare qualcos'altro. Il mio capo aveva un problema simile con delle capre…»

«Che so' 'na capra io?»

«Ma no, che c'entra. Le capre non facevano il latte perché di notte non dormivano, per questo dico. E lui ha chiamato un tizio che non so che ha fatto ma poi ha risolto.»

«Bah…» protestò infilandosi sotto le coperte.

«Almeno facciamo un tentativo no?»

«Sì, così smetto di sognare e inizio a fare il latte» disse infilando la testa sotto il cuscino.

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2. La famiglia del boia


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La campana aveva già suonato la seconda volta e il prete aveva finito la sua comparsata. Toccava al pubblico, che attendeva solo il segnale dell'ufficiale giudiziario. Puntuale, l'uomo lesse l'ultima parola e ripiegò la pergamena dando il via al coro d’insulti e alla tempesta di disprezzo.

Il problema era soprattutto il disprezzo, che prendeva le più svariate forme: uova, frutta marcia, pietre. I più coraggiosi scagliavano anche escrementi la cui natura preferivano non sondare.

L'importante era che non esagerassero, per questo almeno una delle guardie scendeva in strada. Non certo per intervenire, sarebbe stato un suicidio, piuttosto per fungere da promemoria dell'esistenza di una legge cittadina che dava solo al boia il potere di togliere la vita a un uomo.

Quel giorno l'ingrato compito era capitato all'appuntato scelto Polporo, che con sprezzo del pericolo e innato senso del dovere lo stava compiendo dall'angolo più buio della piazza. Non che ci fosse molto da fare, il condannato era un povero diavolo che generava più compassione che odio, ma c'era sempre qualche scalmanato incapace di notare la sottile linea rossa che lo separava dal trovarsi sul patibolo al posto del condannato.

Ma Polporo era certo che il suo occhio vigile avrebbe individuato i soggetti pericolosi prima che facessero danni. E in effetti qualcosa notò. Il boia stava salendo sul patibolo, doveva fare presto.

Affiancò la ragazzina, che se ne stava impunemente oltre il cordone di sicurezza che delimitava la loro area di competenza e con tono perentorio l'ammonì: «Uè ragazzì, qui non ci puoi stare sai? che è solo per le guardie. Fatti un giro, non è uno spettacolo per signorine belle.»

«Ciao Polporo» rispose quella, per nulla turbata.

L'appuntato la squadrò un paio di volte prima di replicare: «Oh, Cetta, ma sei tu, non t'avevo riconosciuta. Che, hai fatto qualcosa ai capelli?»

«Li ho tagliati un po'» disse lei toccandosi il caschetto di ricci rossi. «Ma è da un anno ormai che li tengo così.»

«È da tanto che non vieni? Passa come 'na furia il tempo, vero?»

«Già… È che Decalisto mi ha iscritta a un corso di cucina e c'ho avuto parecchio da fare» si giustificò.

Polporo le si affiancò, così da poter godere d'una vista migliore sui movimenti del boia. «Ma che, già finito la scuola hai?»

La ragazza rise: «Polporo, son due anni che l'ho finita.»

«Santissimo Abàtar, ma quanti ne hai?»

«Ne ho appena fatti quindici» rispose con malcelato orgoglio.

«Iiih, ormai sei da marito» esclamò la guardia. Ma le sue parole vennero coperte dal tonfo sordo dell'accetta sul ceppo, e dal grido d'entusiasmo del pubblico, che per quanto fiacco non tradì il proprio copione.

Polporo, prima di tornare ai suoi doveri, fece un cenno alla ragazza, che ben conoscendo le incombenze della guardia gli sorrise di rimando per congedarlo.

Lei rimase nel suo angolo, a guardare la folla scemare lenta dopo la fine dello spettacolo. Sul patibolo gli attori della triste pantomima stavano per recitare le ultime battute. La parte peggiore toccò proprio a Polporo, che perse il sorteggio per chi dovesse ripulire dal sangue il selciato.

Il boia aveva terminato il suo lavoro depositando i resti del condannato su una barella, e assieme a un'altra guardia li stava portando dentro la caserma. Ma prima puntò dritto verso di lei.

La ragazza non si mosse dal muro dov'era appoggiata.

«Mi aspetti qui o entri?» chiese, da sotto il cappuccio, il gigantesco moro.

«Ti aspetto» rispose lei a mezza voce.

Se ne rimase quindi nel suo angolo, a osservare curiosa la vita tornare alla normalità dopo quella parentesi d'orrore. Non che qualcuno la vivesse come tale, per tutti era giustizia, e lei in fondo non era da meno. Nel villaggio dove era cresciuta la legge era ben più opinabile di quanto fosse nella grande città, e anche le sentenze più lievi finivano spesso nel sangue. Ma vivere nella casa del boia le aveva insegnato a rispettare la morte, unica vera sentenza che attendeva tutti.

La gente che era su quella piazza, però, pareva non rendersene conto, parevano lì non tanto per assistere alle conseguenze di una colpa, quanto per vedere la morte con i propri occhi, una morte per loro improbabile e quindi lontana. Erano lì per sentirsi in qualche modo immortali.

«Andiamo?»

La voce del boia la scosse dai suoi pensieri. Alzò gli occhi verso l'uomo che l'aveva accolta in casa come una figlia, e che se anche non chiamava padre era colui che più sentiva tale.

Si staccò dal muro e si avviò al suo fianco. In confronto a lui, alto più di due metri e largo quasi altrettanto, sembrava ancora una bambina.

«Sai dov'è tuo fratello oggi?»

Non glielo aveva mai detto, ma odiava quando definiva Micalisto suo fratello. «Ha un lavoro da finire, credo.»

«L'ha proprio presa sul serio questa cosa dell'acchiappa fantasmi.»

«Non chiamarlo così, s'incazza di brutto.»

«Ti sembro tanto vecchio d'aver paura di lui?» rise l'uomo.

La ragazza alzò d'istinto gli occhi per valutare le sue possibilità. In effetti a tradire la non più verde età del boia c'era solo un po' di grigio sui capelli, che spiccava ancor di più in contrasto col cranio nero. I muscoli erano ancora tonici e guizzanti. Ma anche Micalisto era parecchio grosso.

Stava per ribattere ma lui non le prestava più attenzione.

«Milandro, hai qualcosa per me?» stava gridando nella bottega del panettiere.

«Mastro Decalisto, certo, il solito» rispose un uomo segaligno, affacciandosi alla porta e consegnandogli un involto. «Ho sentito che anche oggi ha messo a segno un colpo perfetto.»

«Era un dovere, Mastro Milandro, un dovere» rispose il boia allontanandosi. «Scusa Lancetta, mi stavi dicendo qualcosa?»

«Nulla di che» sorrise lei. «Se vuoi domani lo faccio io il pane.»

«Qualcosa hai imparato, allora.»

«Due o tre cosette…»

Proseguirono in silenzio il cammino verso casa, scegliendo le strade più comode e meno sporche, passeggiando così vicini che parevano tenersi per mano.

Quando arrivarono, un tizio tozzo e mal vestito li attendeva sulla soglia. Appena li vide, andò loro incontro senza la minima titubanza. Era una scena che entrambi avevano già vissuto nell'ultimo periodo.

«Salve, signore, è lei…» ma l'uomo, già timoroso di suo, si paralizzò quando Decalisto alzò la mano.

«No, non sono io il sacerdote nero. È mio figlio quello che cerca.»

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3. Il sacerdote nero


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Micalisto non era un giovane come tutti gli altri. Non perché fosse alto più di due metri, pesante quasi trecento libbre e nero più di una notte senza luna. Lo era, ma non era questo a renderlo strano.

Era strano perché vedeva la gente morta.

Lo faceva sin da quando ne aveva memoria, e per un bel periodo della sua vita era stata una vera maledizione. Comprensibile, visto che suo padre era il boia. Ancor più comprensibile considerando che per molti anni non gli aveva creduto, che era arrivato persino a rinchiuderlo in un manicomio.

Ma dove altri avrebbero ceduto alla follia, Micalisto aveva coltivato tenacia e un'incrollabile fede nelle proprie capacità. E quando uno strano caso gli aveva servito l'occasione di riscatto (e una via di fuga dal manicomio) aveva trasformato quella maledizione nel suo destino.

Ora, non solo aveva il rispetto di suo padre, ma in tutta Firmiona si vociferava del giovane salleziano che parlava con i morti. Qualcuno lo chiamava stregone, altri demone, ma per la maggior parte era il sacerdote nero.

Certo, forse non era la professione cui mirava quando si era fatto insegnare da sua zia i rituali più segreti della sua gente, ma la trovava comunque più dignitosa del tagliar teste in nome di un re che neppure aveva mai visto in faccia.

Non era ovviamente in questi termini che ne parlava al padre, sebbene ormai l'uomo avesse messo da parte ogni remora nei confronti dei suoi strani poteri, accettandone le manifestazioni e le conseguenze. Ma sapeva bene che in cuor suo il genitore non riusciva ad approvare pienamente quella scelta, che lo avrebbe preferito in una divisa militare, con un posto sicuro a garantirgli un tetto sulla testa e del pane sulla tavola.

Ma Micalisto non poteva accettare di relegare quel dono al ruolo di vezzo, di curiosità da sfoggiare con gli amici durante le grigliate attorno al fuoco. Sentiva la responsabilità di un potere fuori dall'ordinario e il dovere di metterlo al servizio di chiunque ne avesse bisogno.

E il fatto che per ora ad averne bisogno erano stati solo due vecchi con evidenti problemi di demenza e un fattore, non lo scoraggiava affatto. Soprattutto perché lo spirito che infestava la stalla del fattore gli aveva dato del filo da torcere.

Stava proprio pensando all'unico caso che gli aveva dato un minimo di soddisfazione, quando imboccò la calle che l'avrebbe portato alle tre stanze che chiamava casa. Dalle finestre veniva la luce delle candele, segno che la cena era già stata servita. Non si era reso conto d'aver fatto così tardi, anche se il buio avrebbe dovuto fornirgli qualche indizio in merito. E infatti, quando entrò, sulla tavola c'era solo il suo piatto.

«Dovrai riscaldarti la zuppa» lo salutò il padre.

«Scusatemi, non mi sono reso conto dell'ora» rispose, appendendo il borsello alla parete e andando verso il cucinino.

Lancetta sbucò fuori dall'altra stanza: «L'hai preso?» chiese con entusiasmo.

«Era un gatto. Sono stato lì due giorni e poi salta fuori che era la gatta della casa di fronte, la padrona la tiene in gabbia quando va in amore.»

«Povera bestia» commentò la ragazza.

«Già, faceva dei versi da mettere i brividi. Ma non era uno spettro.»

Armeggiò con la pentola per scaldarsi la cena, finché il padre non gli venne in soccorso: «Non mi sembra un inizio di carriera sfolgorante» commentò prendendogli il mestolo dalle mani.

«No, ma andrà meglio» rispose lui andandosi a sedere.

«Lo so come la pensi, e tu sai come la penso io, ma riflettici. Ormai hai vent'anni, non sei più un ragazzino! L'appuntato nuovo che è arrivato alla guardia ha la tua età, una moglie e un figlio in arrivo» disse versandogli la minestra nel piatto.

«Beh, io mogli e figli non ne ho, quindi al momento non ho bisogno di svendermi.»

«Fa come credi, ma io non potrò darti da mangiare in eterno» bofonchiò il padre ritornando verso la cucina.

«Magari il nuovo caso è più interessante» s'intromise Lancetta, ignorando la tensione che si era creata tra i due.

«C'è un nuovo caso?» chiese Micalisto, il cucchiaio bloccato a mezz'aria.

«Sa tutto tua sorella» rispose il boia dall'acquaio, preparandosi a lavare le poche stoviglie.

Lancetta gli lanciò un'occhiataccia ma decise di soprassedere, aveva un affare da concludere: «Sì, ho parlato io con il cliente.»

«Ottimo! Chi è? Cosa vuole?» chiese, riprendendo a mangiare.

«Se vuoi saperlo devi farmi una promessa.»

Il cucchiaio di Micalisto si fermò nuovamente a metà percorso. Non disse nulla ma i suoi occhi parlarono a sufficienza.

«Allora, mi porti con te?» chiese Lancetta.

Micalisto frenò l'impulso di voltarsi verso suo padre: l'avevano incastrato, era evidente. «È una cosa pericolosa?»

«Non sembra… una signora che ha degli incubi ricorrenti.»

«I sogni sono un terreno impervio, potrebbe essere più insidioso di quanto sembra.»

«Un motivo in più per portarmi con te. Se devi entrare nel sogno serve qualcuno che resti fuori» disse sedendoglisi di fronte.

Micalisto incassò il suo sguardo vivace e abbassò gli occhi. «Non è che si entra nel sogno letteralmente… Comunque, chi è questa donna?»

«Non so, è venuto qui il marito, lavora per quello delle capre.»

«Vedi, padre, i buoni lavori ne chiamano altri» esultò.

«Basta che non siano altri gatti» ribatté l'uomo.

Si lasciò scivolare addosso l'ironia del genitore e continuò a mangiare: «Quando abbiamo l'appuntamento?»

«Abbiamo? Vuol dire che mi porti con te?» chiese Lancetta, raggiante.

«Beh, ho alternative?»

«Credo ci sia un posto libero nella Guardia Notturna» ribatté il padre.

«Ci aspettano domani a pranzo» rispose Lancetta entusiasta, ignorando l'uomo per l'ennesima volta.

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4. Dentro l'incubo


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Il verde del prato è irreale, almeno quanto l'azzurro del cielo. Sembra un sogno ma non le importa: è felice. Non capisce qual è la fonte di tanta gioia, forse un complimento di sua madre, forse un regalo che l'attende a casa.

Proprio non ricorda.

Suggella quella serenità che suona posticcia intrecciando corone di margherite.

Non ricorda neppure quando ha imparato a farle. Se ha imparato…

È sola in quel vasto campo a maggese, eppure si sente osservata. Non è però quella la sensazione che lentamente si sta insinuando nella gioia di quel momento. Non sono quelli gli occhi di cui aver paura.

Ma perché dovrebbe aver paura?

Si dice che non deve, che non ne ha motivo. Ma non è stata lei a dirlo. Cerca la voce e cerca lo sguardo. Non c'è nessuno.

Riprende a intrecciare fiori e per rassicurarsi canticchia una canzoncina. Non ricorda dove l'ha imparata, o da chi.

Sì, qualcuno gliel'ha insegnata, forse quella ragazza vestita di viola laggiù in fondo al prato. Sta cantando anche lei e le fa cenno d’avvicinarsi.

Si alza e s'incammina senza volerlo davvero. Cosa la frena? Quella ragazza sembra così gentile, così bella. Non ha nulla da temere da una ragazzina poco più grande di lei.

Ma forse è quello sguardo, che ancora si sente addosso, forse sono quegli occhi a spaventarla.

Non fa in tempo a pentirsi che la biondina è al suo fianco e la tiene per mano. Con un grande sorriso la sta conducendo verso una macchia boscosa vicina al campo. Non ha davvero paura, eppure non è tranquilla. Sente sempre addosso gli occhi di un estraneo, e non verrebbe proprio che la vedesse ora.

Il bosco è già sopra di loro e improvvisamente tutto s'è fatto scuro. C'è solo quella ragazza, il suo bellissimo viso quasi evanescente, gli occhi più neri della notte e quei capelli che fluiscono come un fiume d'oro. Sembra una visione celestiale, eppure ne ha paura.

Ora vorrebbe solo correre via ma sente quello sguardo addosso e si blocca: deve resistere.

La ragazza si accuccia nella macchia viola che è il suo vestito e tutto il loro universo. Le fa cenno di sedersi al suo fianco.

Non è minacciosa ma il vederla lì, bianca come uno spettro, le gela le viscere e solidifica il panico sulle gambe e le braccia. Sa che deve sedersi, che deve assecondarla, ma non riesce a muoversi.

La ragazza le dice di andare da lei, le promette che sarà bello, ma non è vero, lo sa che non è vero. Non può essere vero.

Riesce a muovere un passo, ma è all'indietro.

Non deve scappare, non ricorda perché ma non deve scappare.

La ragazza ora è una figura bianca e opalescente in mezzo al viola, nuda, raggiante femminilità e perversione, le braccia protese ad afferrarla con gesti lenti ma predatori.

La sente chiamare il suo nome.

Non può resiste oltre. Si volta e fugge.

La voce della ragazza è sempre alle sue spalle, nella sua testa, con promesse che non desidera sentire, che non vuole si avverino.

E intanto corre, corre sempre più forte, finché il vuoto non le si apre sotto i piedi e con un gemito fu di nuovo nel suo letto.

Il marito le cinse le spalle per rassicurarla ma lei lo scacciò malamente: «Abàtar cane, è stato peggio del solito. Almeno è servito?» chiese rivolta all'oscurità nella stanza.

«Sì e no» disse l'ombra.

«Che cazzo di risposta è» protestò Magda.

L'uomo nel frattempo si era affrettato ad accendere una lanterna e la luce aveva ferito gli occhi di tutti, rivelando le figure dei due giovani seduti in un angolo della piccola stanza.

«Sei riuscito a entrare nel sogno?» chiese Lancetta che, sebbene non avesse fatto altro che osservare una tizia russare, era eccitatissima dall'esperienza.

«Non era quello che volevo fare, non posso entrare nei sogni.»

«E allora a che cazzo è servito portare un negro in camera nostra?» protestò Magda, colpendo il marito sulla testa.

Micalisto si alzò, il volto duro e impassibile. «Ero venuto per darle aiuto, ma non sembra nella disposizione d'animo adeguata a riceverne.»

«Che cazzo d'aiuto se hai appena detto che non hai visto niente, porco Abàtar.»

Lancetta aveva gli occhi fissi sul volto di Micalisto: era certa che sarebbe esploso da un momento all'altro. Quella donna era insopportabile persino a lei, che aveva modi ben più grezzi dell'amico.

Micalisto invece mantenne inalterato il suo aplomb: «Anche ciò che non c’è può essere un indizio. Il fatto che non ho visto spiriti o altre entità significa che qui non ce ne sono.»

«Stai dicendo che è tutto nella mia testa? Che sono matta?» ringhiò Magda, atteggiandosi a conferma di quella affermazione.

«Ho forse detto questo?»

«A me sembra di sì» disse la donna, prima che il marito riuscisse a fermarla.

«Come vuole. Forse allora non le interessa sapere che lo spirito anche se non è qui, quando sogna si manifesta.»

Quelle parole ebbero il potere di calmare Magda, che rizzò il suo grosso corpo per mettersi più comoda e in ascolto.

«È un tipo di manifestazione cui non avevo mai assistito» proseguì Micalisto. «Lo spettro non è realmente qui, eppure la sua essenza lascia traccia in questa stanza per alcuni secondi, presumo il tempo del sogno. Come se si creasse una sorta di varco tra qui e il luogo dove dimora lo spettro.»

«Cosa significa?» chiese il marito.

«Non ho una risposta certa, ma posso fare una supposizione. Credo che quello della signora non sia un semplice sogno, ma sia un ricordo. Un ricordo che condivide con lo spettro.»

«Cazzate!» sbottò Magda. Ma il tono della sua voce era cambiato: era passata dall'attacco alla difesa.

«Questo è tutto ciò che posso fare con le informazioni che ho. Se non ha altro da dirmi possiamo salutarci qui» e fece cenno a Lancetta di seguirlo.

«Tesoro, sicura di non ricordare?» chiese il marito.

«Sì, in effetti quel luogo mi è familiare» confessò Magda con riluttanza.

«È un inizio» rispose Micalisto tornando a sedere.

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5. Con la Morte nel bosco


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Il vento accarezzava il grano maturo disegnando onde dalle forme ipnotiche e sensuali, scintillanti d'oro sotto i raggi del sole bollente.

I suoi capelli si sarebbero confusi tra le spighe, se avesse potuto attraversare il campo, sarebbe diventata essa stessa grano cullato dalla brezza.

Ma quel campo per lei era solo un miraggio, una realtà priva di consistenza. Così come il vento, il sole, la terra sotto i piedi.

Eppure le era così caro quell'angolo di mondo.

«Sapevo che ti avrei trovata qui» disse la voce alle sue spalle.

«È quel periodo dell'anno» si limitò a rispondere.

«Per noi il tempo non ha alcun significato.»

«Ma per lei sì. E in fondo anche tu insegui il loro tempo, no?» le disse, voltandosi per vederla in volto.

«È il mio lavoro» rispose Morte.

«Lo è anche per me, in un certo senso» ribatté la ragazza incamminandosi tra le spighe, impassibili al suo passaggio.

«Per te è solo una tortura. Non dovresti essere qui, e lo sai.» C'era un duro tono di rimprovero nella voce di Morte. Qualcuno, prestando molta attenzione, avrebbe notato anche sfumature di apprensione, che lei ovviamente non avrebbe mai ammesso.

«Non potrei stare in nessun altro luogo, e lo sai.»

«Perché lo fai, perché ti sottoponi a questo supplizio?»

Lo spirito allargò le mani come ad accarezzare il grano: «Te lo spiego ogni anno e ancora non hai capito?»

«Ho capito che la morte ti ha reso pazza, come accade a tanti altri disgraziati» rispose lei, un tono severo a offuscare l'impassibile teschio.

«Non la morte ma l'amore» rise la fanciulla, correndo verso la macchia boscosa al limitare del campo.

Morte diede un colpo di falce al grano, che si inclinò lievemente spinto dal vento, poi la seguì, attraversando il sottobosco come fosse aria.

«È l'attesa di questi giorni che mi tiene qui, del loro ricordo. Ed è l'attesa del momento in cui non sarà più solo un’ombra del passato, ma una forza che potrò tenere qui, tra le mie braccia, come allora» e con un ampio gesto abbracciò l'aria piroettando verso l'alto.

«Non funziona proprio così…» ma una nuova voce interruppe l’arringa che Morte si preparava a sciorinare. «C'è qualcuno.»

«Sì, guarda, sono una coppia di ragazzi, lei avrà la mia età» disse lo spirito che si era già affacciato fuori dal bosco. «Dai, andiamo a osservarli da vicino.»

«Aspetta, potrebbe vederti» le sbarrò la strada con la falce.

«Ma cosa dici, è impossibile.»

«Non per lui» rispose sicura Morte.

«Li conosci?»

«Io conosco tutti.»

La coppia si era fermata sul lato opposto del campo e scrutava il paesaggio come alla ricerca di qualche punto di riferimento. Lo spirito pensò che lei aveva dei bellissimi capelli, parevano una fiamma visti da quella distanza.

Discutevano, non animatamente ma la ragazza sembrava agitata. Lo spirito guardò Morte per cercare d'interpretarne i pensieri, poi capì: «Oh, no… Sei qui per lei. Lui è così grosso… le farà del male, la ucciderà vero?»

«No, non la ucciderà.»

«Allora forse sarà lei, magari per difendersi lo colpirà con…»

«Nessuno ucciderà nessuno» sospirò Morte. «Ma sta zitta, si avvicinano.»

La ragazza stava in effetti costeggiando il campo di grano con passo svelto, puntando decisa verso il boschetto da cui Morte e lo spirito li stavano spiando.

S'infilò tra i cespugli sotto il loro invisibile sguardo e slacciandosi le braghe andò ad accucciarsi dietro a un tiglio.

«Oh, doveva solo fare…» rise lo spettro.

«Taci» le impose Morte.

«Per Babuz, ho fatto un lago, mi scappava da morire» esclamò la ragazza uscendo dal bosco. «Mica, non è che hai guardato, vero?» strillò al compagno ancora distante.

«No che non ho guardato.»

Lei osservò meglio i dintorni e richiamò ancora la sua attenzione. «Forse è questo, sai? Il boschetto che diceva Magda.»

Lo spirito trasalì e Morte dovette spostarla a forza in una zona più buia, mentre Micalisto si avvicinava.

«Stavo pensando anch'io la stessa cosa» confermò raggiungendo Lancetta.

«Bene. E adesso che si fa?»

Il ragazzo sembrò misurare con lo sguardo il perimetro delimitato dagli alberi. «Aspettiamo» sentenziò infine.

«Qui?»

«Dove se no? Se il sogno è legato a questo posto, e c'è uno spettro connesso, potrebbe rivelarsi all'ora in cui Magda sogna.»

«Quindi vuoi stare qui tutta notte?»

«È questo che fa un investigatore dell'occulto» rispose lui lapidario.

«Cosa significa? Perché restano qui?» sibilò lo spirito della fanciulla, i contorni del viso resi vacui dall'agitazione.

«Per investigare, è stato chiaro il ragazzo.»

«E cosa vuol dire? E poi se lui mi vede come faccio io…»

«Tu non dovresti essere qui!»

L'imperativo di Morte si era espanso come un'onda di silenzio per tutto il bosco. Anche i due ragazzi si erano per un istante fermati a contemplare lo strano fenomeno.

«Perché ti ostini a non capire, io non posso…»

«Vieni, Ysbel, ti condurrò per l'ultimo tratto» disse Morte, ignorando la sua obiezione e porgendole la mano.

Lo spirito della fanciulla rimase immobile, gli occhi fissi sulle dita scheletriche. L'abito viola aveva assunto tonalità tetre, rivaleggiando col nero profondo della cappa di Morte.

«No.» Non c'era decisione in quella risposta, solo un profondo senso d'ineluttabilità.

«Sarà bello, molto più bello di quello che hai qui. Te lo prometto» e spinse la mano avanti, quasi a sfiorarle i capelli che le danzavano sul viso spinti da un'impossibile brezza.

Lo spettro apparve titubante, alzò il capo per incontrare il volto di Morte, la cui fissità appariva dolce e paziente, e il ghigno quasi un sorriso.

«Ho fatto una promessa» disse poi, abbassando nuovamente lo sguardo.

Morte ritirò la mano e assunse la posizione. «Stai commettendo un errore, so che ne sei consapevole. Forse hai solo bisogno di sentirtelo dire da qualcun altro» e con un cenno aprì il varco di luce.

«Mi dispiace» sussurrò la ragazza.

Ma Morte era già Oltre.

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6. Sognare in un mare di stelle


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Alzò gli occhi: il cielo era un'interminabile distesa di brillanti, addensati come la spuma di un'onda nel mare nero della notte.

«In città è impossibile vederle così» disse, esprimendo quella sciocca riflessione ad alta voce.

«Teniamo accese troppe luci» spiegò lui.

Lancetta si voltò a cercarlo nell'ombra. Era così buio da rendere difficile distinguerlo. Ma ne sentiva la presenza, e ciò bastava.

Trascorse altro tempo, l'onda di stelle proseguì il suo flusso.

Era una serata ideale, le cicale insistevano nel loro assordante concerto che alla lunga era diventata una nenia rilassante, la temperatura era piacevole, con una leggera brezza ad allietarla, e le stelle lassù parevano non finire mai. Una serata ideale, sì, ma per cosa?

Lancetta tornò a cercare il profilo di Micalisto, riuscendo a distinguerlo a malapena. Si sorprese a chiedersi se non stesse facendo anche lui lo stesso.

«Quindi sei un investigatore dell'occulto?» chiese per evitare di pensare.

«Mi pare una definizione calzante. Non tutti però la capiscono.»

«Continueranno a chiamarti sacerdote nero, lo sai?»

«Temo di sì»

Lontano una civetta lanciò il suo lugubre canto, ma a Lancetta piaceva, era malinconico e accorato come il richiamo di un innamorato triste. Lo sentiva stranamente affine.

«Quindi, investigatore, cosa faremo se lo spettro si presenta?»

«Tu non dovrai fare nulla, tranquilla.»

Lancetta però avrebbe preferito fare qualcosa. Qualunque cosa.

«E tu invece?»

«Proverò a parlargli. Molto spesso gli spiriti non si rendono conto di come interferiscono con il mondo dei vivi, i più non sanno di poterlo fare. Molti non sanno neppure di essere morti. Gli parlerò, spiegherò come stanno le cose e gli mostrerò come trovare la pace.»

«Tutto qui?»

«Se non ci sono contrattempi, sì.»

La mente di Lancetta rappresentò un concetto di contrattempo ben lontano da quello ipotizzato da Micalisto. Lo scacciò ringraziando Abàtar che la notte avesse celato il suo rossore.

«E se ci fosse?»

«Improvviserò» rispose Micalisto senza cambiare il tono di voce.

Passò altro tempo, una nuova ondata di stelle sostituì la precedente, in una mareggiata costante e ipnotica.

«È stupendo il cielo stanotte.»

«Già.»

«Scommetto che vorresti condividerlo con un'altra, non con me» Lancetta si morse la lingua troppo tardi.

A Micalisto scappò una risata, le parve quasi d'imbarazzo. «E con chi dovrei condividerlo?»

«Con quella… ragazza di Hipaloma, ad esempio.»

«Cosa ne sai di Roxana?»

«So che negli ultimi tempi sei andato a Hipaloma almeno quattro volte» rispose lei, sforzandosi di apparire neutrale.

«Cos'è, mi spii?»

«Colpa di Decalisto, continua a dirmi: tieni d'occhio tuo fratello» disse facendo una pessima imitazione del boia. «Poi finisce che lo faccio davvero.»

«Non siamo fratelli» protestò lui. «E comunque se le cose stanno così saprai anche che in realtà è quasi un anno che non ci vado.»

Lo sapeva molto bene, ma tacque attendendo una spiegazione che, conoscendo Micalisto, poteva anche non arrivare.

«Con la caduta dell'Eudopia Unita, al confine il clima si è fatto pesante» la sorprese invece lui. «I clienti alla… pensione non erano più gli stessi e Madame Melina ha ceduto l'attività e si è ritirata. Molte ragazze se ne sono andate e Roxana è tra queste. Penso sia a Trodi ora.»

«Perché non le hai chiesto di venire a Firmiona?»

«Non era una storia così importante.»

Lancetta tenne per sé la domanda successiva, non aveva bisogno di conferme per capire che era l'esatto contrario.

La civetta aveva ripreso il suo canto, più vicina e più triste che mai. Era apparsa anche una striscia impercettibile di luna, pareva un sorriso di circostanza.

«Beh, anche tu immagino…» disse Micalisto.

Attese che finisse la domanda. Lui non la finì. Rispose comunque: «Non certo col figlio del lavandaio, se è quello che pensi.»

«Non state più insieme?»

«Non siamo mai stati insieme. Ci saremo baciati due volte in tutto. Ha le mani che sembrano gelatina, è orribile sentirsele addosso.»

«Ti ha messo le mani addosso?»

Il tono di lui l'aveva quasi spaventata, sembrava pronto ad andarsene da lì immediatamente per farla pagare al povero Willem. Sorrise lusingata, grata che non potesse vedere l'espressione del suo volto: «Mi ha accarezzato il viso, e preso per mano. M'è bastato.»

Il silenzio si riappropriò del campo, anche le cicale si erano prese una pausa. Solo il cielo non si stancava di spruzzare bagliori di galassie sulla terra nera. Il grano si muoveva sussurrando, cullato dai bisbigli della notte.

Lancetta si strinse nella giubba, accostandosi a Micalisto. «Scusa, improvvisamente mi è venuto freddo.»

Lui l'accolse senza dire nulla.

«È un freddo strano, e anche questo silenzio. Forse sta arrivando lo spettro» disse lei, sperando non sembrasse una giustificazione, ma capendo da sola che invece lo sembrava.

«Non è vero sai che quando c'è un fantasma si sente freddo. A volte capita, sì, ma la maggior parte di loro non sa interagire con il mondo dei vivi.»

«Hai ragione, me l'avevi già detto» rispose sperando di sembrare meno stupida. Ma poi aggiunse: «Magari questa è una di quelle volte.»

«Magari…»

Altre stelle ondeggiarono nel cielo e altro tempo scivolò via. Lancetta lo passò accoccolata al fianco di Micalisto, sorprendendosi rassicurata l'odore forte della pelle di lui, e dal ritmo lento del suo respiro. Avrebbe anche potuto addormentarsi, forse lo stava già facendo.

Nel silenzio della natura le parve di sentire una canzone, una vecchia nenia che le suonava familiare. Era una voce giovane, una fanciulla, la cantava con gioia e passione.

Riaprì gli occhi scacciando il sonno e il sogno. «Mi sono assopita un attimo e…»

«Taci» sussurrò lui.

«È qui vero?»

«Al limitare del campo, dove diceva Magda.»

Provò a guardare anche se non poteva vedere. «L'ho sentita. Il sonno mi ha preso un momento e l'ho sentita cantare.»

Micalisto incassò l'informazione: «È spinta da una forza molto potente. Potrebbe essere pericolosa.»

«Vuoi parlarle?»

«No, proverò a sognarla.»

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7. Storia di uno spettro


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Micalisto chiuse gli occhi, ma la stanchezza era lontana, difficile da afferrare.

Cercò un ricordo cui aggrapparsi, immagini da far scivolare in sogno, mentre la canzone dello spettro vibrava nel suo cuore lasciandolo sospeso tra la calma e l'emozione.

Sua madre gli cantava una canzone, per farlo addormentare, non ne ricordava parole o melodia, ma ne aveva dentro ancora il ritmo, era lo stesso delle sue carezze. Gli parve di sentirle ancora quelle carezze, forse erano vere, forse era Lancetta, o forse era sogno. Scelse di credere la seconda e farsi trasportare.

E improvvisamente fu lì.

Il grano era sparito, al suo posto un prato verde brillante macchiato di bianche margherite. Al centro era seduta una ragazzina, magra, le trecce nere diseguali, il volto spigoloso ingentilito da un sorriso pieno. Era Magda, anche se era difficile riconoscervi la donna insopportabile che era adesso.

Alla sua destra, sul limitare del campo, un'altra ragazza forse poco più grande, la osservava senza essere vista.

Non gli fu difficile riconoscere lo spettro che aveva scorto poco prima da sveglio. E anche lei parve riconoscerlo.

Micalisto alzò le mani, in segno di pace, ma quando lei gli apparve davanti era furiosa.

Doveva essere stata molto bella, ma mentre gli ringhiava contro, il furore ne aveva disgregato i lineamenti in una maschera grottesca: «Vattene, esci dal nostro paradiso, stai rovinando tutto.»

Non fu facile restare impassibile: «Voglio solo parlarti un momento. Voglio capire.»

«Non sono affari tuoi.»

«Ma di Magda sì. È lei che mi manda.»

Non ottenne il risultato sperato, lo spirito non parve sorpreso: «Menti! Perché dovrebbe mandare te a rovinare i nostri giorni.»

Micalisto aveva davanti al viso la bocca del fantasma orrendamente aperta, sembrava pronta a divorarlo. Ma restò immobile e sferrò il suo attacco: «Perché ha paura di te.»

L'effetto fu immediato. La forma dello spirito ritornò al suo simulacro mortale, sbiadendo nella luce di quel giorno onirico.

«Non è vero» disse. Ma era evidente che neppure lei vi credeva.

«Come ti chiami?»

«Lei non te l'ha detto?»

Micalisto fece una pausa, per darle il tempo di prepararsi alla risposta: «Lei non ti ricorda.»

Il giorno si spense e il sogno svanì. Micalisto aprì gli occhi e intravide nell'ombra Lancetta china su di lui. Lo stava veramente accarezzando. Un attimo dopo era già schizzata via.

Non aveva tempo per curarsi del suo imbarazzo, e neppure del proprio, doveva intercettare lo spettro prima che svanisse.

La vide nell'angolo di campo dov'era prima che si assopisse.

«Vieni, raggiungiamola» disse a Lancetta.

Le corsero incontro, ma lei non si mosse. «Mi chiamo Ysbel» disse quando le furono abbastanza vicini.

«Io sono Micalisto, e lei è Lancetta, una mia amica. Non può vederti o sentirti ma le racconterò volentieri la tua storia, se ti va.»

Lo spirito s'incamminò a passi lenti verso il nero che era il bosco, ma intorno a lei si stava facendo giorno. Aveva una forza tale da piegare la realtà che la circondava, da mostrare i suoi ricordi come accadessero davanti ai loro occhi.

Micalisto non aveva mai incontrato prima un'entità così potente.

«Era l'estate del mio sedicesimo compleanno. Come accadeva ormai da qualche anno mio padre mi mandò alla nostra tenuta di campagna, che è ancora a poche miglia da qui, per stare lontano dalla città e lasciare una presenza della famiglia a incombere sui braccianti. Non che sapessi incombere chissà quanto, ma secondo mio padre, insieme alle sue visite a sorpresa, era più che sufficiente.»

Una risata dolce e amare le scivolò via dalle parole, mentre intorno ormai era giorno, era quell'estate di forse trent'anni prima.

«Mi piaceva venire qui, mi piaceva girare per i campi, guardare gli animali e aiutare ad accudirli. Gli uomini di mio padre erano gentili con me, mi lasciavano fare, talvolta mi sentivo una di loro. Ma quell'estate fu diversa. Non badai ai campi né ai cavalli, non chiesi resoconti sulla produzione o programmi di lavoro. Quell'estate c'era Magda.»

Micalisto la rivide con gli occhi di Ysbel, una ragazzina di quattordici o quindici anni, un po' disordinata, snella ma dalle forme già delineate, con un sorriso contagioso. Sembrava impossibile fosse la stessa donna sfatta e volgare che lo aveva assunto.

«Era la figlia di un operaio stagionale, era lì con il padre per lavorare ma a causa mia non si rese mai molto utile. Fu il suo sorriso a stregarmi, e il modo in cui si muoveva. All'inizio non capii cosa mi stesse accadendo, semplicemente mi piaceva stare con lei, e facevo di tutto per averla accanto. Non era difficile, la mia parola era legge nella tenuta, ma all'inizio lei era titubante, temeva di far arrabbiare suo padre. Ma dopo che ricevette la paga nonostante la settimana passata a chiacchierare, raccogliere fiori nei campi ed esplorare i dintorni assieme a me, si lasciò andare. E diventammo inseparabili.»

Micalisto le vide insieme, correre in quel prato guardandosi negli occhi, e capì subito come sarebbe proseguito il racconto.

«Mi ci volle quasi un mese però per comprendere cosa stessi provando. Non era facile ammetterlo, per una ragazza cresciuta con un'educazione tradizionale, con un padre che già da tempo stava cercando un buon partito con cui concludere un accordo matrimoniale. Ma dovetti cedere alla realtà: non era amicizia, era amore.

Magda era diventata il mio respiro, il battito del mio cuore, il mio unico pensiero. La desideravo come mai altro in vita mia. Ed ero certa che anche lei, in fondo, provasse lo stesso per me. Così una sera la portai in questo boschetto, e la baciai. Lei ricambiò, cominciammo a spogliarci e ci amammo entrambe per la prima volta.»

Micalisto abbassò lo sguardo davanti alla scena che Ysbel riviveva senza pudore, e comprese infine il senso di quel sogno.

«Venimmo qui per dieci giorni, poi fui costretta a rientrare. Le promisi che sarei tornata l'anno successivo ma quell'inverno mi ammalai. Fu una cosa dolorosa ma rapida. Volli tornare un'ultima volta alla tenuta, mio padre non poté negarmelo. Speravo di rivedere Magda, ma erano tutti rientrati a casa finita la stagione. L'ultima sera, con le poche forze che mi restavano, scappai dal mio letto e venni qui. Volevo raggiungere il nostro bosco, ma morii al limitare del campo.»

«Quindi ogni anno torni perché gliel'avevi promesso.»

«Torno perché non posso stare senza di lei.»

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8. Amare così


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Erano tutti lì: Lancetta, Micalisto, Magda e suo marito.

Il sole basso all'orizzonte aveva avvampato il campo e il grano pareva una distesa di fuoco. Era un'immagine potente ed evocativa, ma le bestemmie della donna le toglievano ogni magia.

«Abàtar pulcioso, non potevi rifare quello che hai fatto la notte scorsa, dovevo proprio venire in mezzo a questo schifo?»

Non era chiaro cosa ritenesse tanto schifoso, visto che lei per prima non pareva una campionessa di pulizia, perciò Micalisto concluse che doveva essere il semplice trovarsi all'aperto a infastidirla. O il trovarsi in quello specifico luogo.

«Gliel'ho già detto, l'altra sera non l'ha sognata perché l'ho tenuta impegnata io, ma non posso farlo tutte le notti»

«E non potevi liberartene? Non sei un cazzo di acchiappa fantasmi?»

Micalisto si grattò i palmi delle mani e Lancetta gli strinse lievemente un braccio. Deglutì e replicò: «Non funziona così. Lo spirito resta qui per lei, deve essere lei a liberarlo.»

«Per me? Ma io non so chi cazzo è, Abàtar boia.»

«Sicura amore che non ricordi?» sussurrò il marito, nella pessima imitazione di un gesto d'affettuosa preoccupazione.

«Oh, che Babuz ti prenda Larvin, vai a farti un giro che già non ci capisco nulla per conto mio.»

L'uomo ubbidì e si allontanò, non prima però di lanciare uno sguardo di supplica a Micalisto.

Il giovane attese che l'uomo fosse lontano a sufficienza e che Magda si abituasse all'idea d'essere davvero lì. «Proprio non lo ricorda questo luogo?»

«Da ragazzina sono venuta a lavorare in una tenuta qui vicina per un paio d'estati, tutto qui» rispose lei, in tono sommesso. «E forse sarò venuta qui qualche volta, sì.»

«Non ricorda d'esserci stata con lei?»

«Ma lei chi, Abàtar cane!»

«Ysbel, la figlia del tenutario. Una bella ragazza, alta, bionda…»

«No, io non ricordo nessuna bionda» ma il colore paonazzo che avevano preso il suo volto lasciava intendere la vera risposta.

«Non ricorda neppure cos'è successo in quel boschetto?»

«Ma no, porco Abàtar, no.»

«Come vuole, ma mentire non le servirà a liberarsi di Ysbel. Perché so cos'è successo in quel bosco, me l'ha mostrato lei.»

Il volto di Magda si sciolse in un pallore funereo. Si gettò su Micalisto supplicandolo, e restarono in piedi solo perché il giovane era massiccio quanto la donna. «Tu mi vuoi rovinare, non puoi dirlo, nessuno deve sapere… io non sono quel tipo di donna.»

«A me non interessa chi credete d'essere, Magda, e tanto meno m'interessa raccontarlo ad altri. È a Ysbel che dovete delle spiegazioni.»

«Senti, per me era un gioco, ero una ragazzina, ma a me piacciono gli uomini, non sono una così.»

«Dillo a lei.» Il tono di Micalisto non ammetteva repliche.

Magda balbettò, cercando altre scuse che non riuscì a formulare, poi strinse in mano il mazzetto di fiori che si era portata appresso: «Non basta se le lascio questi dov'è morta?»

«Torni a casa e stanotte, quando la sognerà, non fugga. L'affronti e le confessi quello che trent'anni fa non ha potuto dirle.»

La donna capì sin troppo bene che si trattava di un consiglio che non ammetteva repliche. Lasciò i fiori a terra e chiamando il marito gli andò incontro.

Micalisto e Lancetta restarono lì, al limitare del bosco, a guardare le grottesche ombre della coppia rimpicciolirsi nel tramonto.

«Pensi che lo farà?» gli chiese Lancetta raccogliendo i fiori.

«Non lo so, spero di sì.»

«Dov'è morta esattamente?»

Micalisto seguì il limitare del campo e indicò il punto all'amica. Lancetta s'inginocchiò e dopo averli ravviati li depose incastrandoli tra due zolle di terra.

«Anche se forse non è più necessario aggiungere altro» disse Micalisto dopo un lungo silenzio.

«È qui, vero?»

«Dove altro potrebbe essere?»

I due giovani restarono così, a fissare il misero mazzetto di lillà mentre gli ultimi bagliori del giorno sfiorivano all'orizzonte.

«Quindi abbiamo finito?»

«Sì, possiamo tornare a casa» rispose Micalisto, senza muoversi.

«Pensavo fosse più avventurosa la vita dell'investigatore dell'occulto.»

«Beh, questo è il nostro secondo caso. Magari gli altri saranno più avvincenti.»

Lancetta lasciò frullare quella parola nella sua testa per alcuni secondi, poi la risputò: «Nostro?»

«Preferisci restare a casa a cucinare per mio padre?»

«Forse sarei più utile…»

Micalisto sorrise, lei se ne accorse nonostante il buio incalzante. «L'altra sera mi sei stata molto utile, senza di te non mi sarei addormentato e il contatto con Ysbel sarebbe stato più difficile.»

Lancetta sorrise di rimando, curando di non farsi vedere.

Lasciarono che la luce sparisse del tutto e che le stelle s'impossessassero del cielo. Solo un basso spicchio di luna restava a rischiarare i loro volti.

«Pensi che sia possibile amare così tanto senza soffrire?» chiese Lancetta, quasi si stesse rivolgendo al cielo e non a Micalisto.

«Forse, se si ha abbastanza fortuna.»

«Sono sempre stata scalognata…»

«Pensavo che fosse stato un colpo di fortuna a farci incontrare, sei anni fa» rise lui.

«No, è che facevate un rumore assurdo» replicò lei, fingendosi contrariata. «Comunque non so, forse preferirei amare meno e non soffrire che passare un'eternità come Ysbel.»

«Non credo sia possibile. L'amore non ha vie di mezzo.»

Lancetta si sforzò di leggere tra le righe della sua intonazione: «Amavi Roxane, vero?»

«Sì.»

«E credi che potrai amare ancora così?»

«L'amore non ha neppure unità di misura. Non è un contenitore che si svuota o si riempie a piacimento. Semplicemente c'è o non c'è. Quando c'è lo senti.»

«Ne sai di cose sull'amore…»

«Ma va, io non so niente» disse, mettendo una risata sottintesa in quella frase pronunciata con severità. «Andiamo ora, è davvero tardi.»

Lancetta fece il primo passo verso il sentiero che conduceva in città e Micalisto l'affiancò. Lei, quasi d'istinto, spinse la mano verso quella grande di lui. Micalisto l'aprì e l’accolse.

Camminarono così fino alle porte di Firmiona.

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Epilogo


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Due ragazzini, avranno avuto otto anni, si rincorrevano lungo il sentiero che portava al podere. Erano felici di quel gioco semplice e innocente, ignari di ciò che l'età adulta avrebbe preteso in cambio delle sue velleitarie passioni.

Se ora un viandante avesse chiesto loro di barattare quel divertimento improvvisato con una notte d'amore, gli avrebbero riso in faccia. Ma da lì a pochi anni, avrebbero scambiato quello e ben altro anche solo per un minuto.

Ysbel, dal suo angolo di nulla, li osservò allontanarsi fino a diventare foschia nella calura estiva. Si sorprese a rimpiangere quella sensazione, il calore della pelle sotto il sole, il fastidio del sudore lungo la schiena.

In tutto quel tempo non aveva mai rimpianto altro se non Magda. Mentre lei l'aveva dimenticata, cancellata, rinnegata.

Era stata così sciocca.

«Pensavo che consistesse in questo l'amore: perdere completamente la ragione.»

Ysbel alzò gli occhi: Morte era in piedi in mezzo al grano come un faro in un mare giallo.

«Anche, ma non solo.»

Morte emerse e le si parò davanti, falce alla mano, in una posa che chi la conosceva meglio avrebbe definito "rilassata".

«Tu l'hai sempre saputo che lei…» l'accusò Ysbel, senza avere il coraggio di completare la frase.

«Anche tu lo hai sempre saputo.»

Ysbel si sedette su un masso ai bordi del campo, i capelli biondi confusi tra le spighe come un’unica, gigantesca, piega. Stava piangendo, ma le lacrime non potevano scendere dai suoi occhi privi di vita.

«Allora spiegamelo: cos'è l'amore?» domandò Morte.

«Come puoi capirlo tu, che conosci solo i miasmi della tomba?»

Morte s'irrigidì, ma i singhiozzi di Ysbel erano tanto gelidi e ineluttabili da bloccarle tra i denti ogni parola. Posò la falce a terra e le sedette al fianco: «Prova a spiegarmelo ugualmente.»

Ysbel spostò lievemente la testa, come volesse cercare il suo viso ma poi avesse cambiato idea. Dopo un lungo silenzio le chiese: «Come ti senti quando non stringi la falce?»

Morte non si aspettava una domanda: «Non ci ho mai pensato. È come se mi mancasse qualcosa» rispose, raccogliendo d'istinto l'attrezzo.

«Ecco. L'amore è così. Finché non lo provi, finché non te ne importa nulla, tutto va bene. Ma appena lo scopri ti si apre un vuoto dentro e senti un pressante bisogno di riempirlo.»

«Magda riempiva il tuo vuoto?»

«Così credevo. Ma forse sedava solo la paura di quel vuoto, la paura di restare qui, nel nulla, sola.»

Morte si alzò e guardò con compassione il volto tanto bello quanto diafano di Ysbel: «Non sei sola. E non sei costretta a restare qui.»

«Ma sarò sola anche… di là.»

«Oh, là non puoi essere sola, là è concentrata l'energia di tutto l'intero creato. E anche di più.»

Ysbel sollevò il viso e guardò Morte nel profondo delle sue orbite vuote. Non le faceva paura, anzi, la trovava rassicurante, l'aveva sempre trovata rassicurante. In più ora sembrava quasi sorriderle.

Si alzò e le porse la mano.

Morte la strinse con delicatezza e la guidò verso la luce.

Camminarono così, mano nella mano, verso il confine infinito delimitato dal Purgatorio, puntando una macchia più scura che presto si consolidò nella forma di un battello sgangherato.

«Il tuo viaggio inizia ora. Sii felice Ysbel» la salutò Morte, consegnandola alle cure del vecchio marinaio che attendeva sul molo.

«Tu non vieni con me?»

«Non posso.»

«Forza, piccola, stavamo aspettando solo te» la incoraggiò il Traghettatore.

«Ci rivedremo?» le chiese prima di posare piede sull'imbarcazione.

«Sempre. Per noi il tempo non ha alcun significato.» E questa volta, Ysbel ne fu certa, Morte stava sorridendo.

Il traghetto salpò con il suo carico di anime. Morte rimase sul molo ancora un momento, a guardare Ysbel che la salutava dal ponte.

«Giornata dura?» si intromise una vocetta petulante.

Morte abbassò lo sguardo sul Tristo Roditore: «Non più del solito.»

«Ti va una pausa?»

«Volentieri» disse lei tirando fuori una sigaretta.

Anche il Tristo Roditore estrasse qualcosa dagli anfratti della sua veste e insieme si sedettero sulla riva del fiume, a scrutare la fissità delle acque.

Il silenzio era interrotto solo dallo sciabordare lontano del traghetto, e dal rosicchiare del Tristo Roditore.

Restarono lì, le orbite sulle acque piatte, spezzate dal solitario annaspare di qualche anima, e chiacchierarono sulla recrudescenza della vita per un tempo indefinibile. Se lo potevano permettere, per loro il tempo non aveva alcun significato.

Ma nonostante questo dovettero tornare al lavoro.

«Sicura che non me la vuoi raccontare quella storia?»

«Sicura» rispose Morte prima che la luce si aprisse davanti a loro. Si voltò ancora una volta verso il Purgatorio, giusto il tempo per il Tristo Roditore di sparire.

Poi lo seguì anche lei, seppure verso un'altra destinazione.

Era un altro tempo, ma per lei non faceva differenza. Il campo sotto la luna brillava di scintille, la rugiada faceva a gara con le lucciole. Lei era là, distesa supina, gli occhi a quel cielo inondato di stelle. Presto il sole sarebbe sorto, senza che lei potesse goderne più il calore.

Il viso sofferente, pallido, restava d'una bellezza pura, fragile e gentile, i capelli d'oro riflettevano il chiarore lunare come un'aura ultraterrena.

Emise ancora alcuni sospiri sordi e faticosi, poi i suoi polmoni smisero di riempirsi, il suo cuore batté l'ultimo colpo.

Quando le apparve di fronte non mostrò alcun timore. Ma con fermezza l'anticipò: «Non verrò con te, aspetto una persona.»

«Ti faccio compagnia per un po', se ti va.»

«Certo» sorrise Ysbel.

Morte posò la falce, si sedette accanto alla giovane e insieme attesero l'alba.



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