Boia chi resta

Prologo


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Gli spettatori stavano per raccogliersi nella piccola piazza disadorna. Erano come sempre i più variegati generi umani: uomini e donne, ricchi e poveri, giovani e anziani, e pure qualche ragazzino. Mancavano forse solo gli individui più acculturati, quelli che ritenevano tali manifestazioni sintomo di una società ancora gretta e involuta, ma essendo una infima minoranza, nessuno avrebbe sentito la loro mancanza.

Sicuramente non avrebbe pesato ai protagonisti della manifestazione.

L'avvicinarsi della bella stagione e la totale assenza di neve per le vie, stava inoltre favorendo l'interesse dei più, tanto che anche la strada superiore, che dava sulla piazza con uno stretto ballatoio, aveva iniziato a gremirsi di curiosi.

Tra questi, ovviamente, lei non poteva mancare.

Non che fosse curiosa, tutt'altro, a spettacoli di tal caratura aveva sempre un posto in prima fila, ma il lavoro era lavoro, e non poteva certo esimersi dal presenziare. Soprattutto quel giorno.

C'era in effetti molto fermento tra gli abitanti di Firmiona che avevano deciso di passare in compagnia quei dieci minuti d'odio, forse perché l'attore principale era conosciuto in città. A lei i motivi di quella marmaglia erano del tutto indifferenti, e comunque li avrebbe dovuti sopportare ancora per poco.

Quando il lugubre portone del palazzo che dominava la piazza si aprì, producendo uno stridente raschiare di ferraglia, il silenzio si allargò come un'onda, lasciando spazio ai macabri rintocchi di una campana. Dal buio che impregnava le stanze oltre il portone, uscì un uomo tarchiato, stretto in un pastrano viola ricamato fino all'eccesso, che adeguando il passo al ritmo dei rintocchi si avviò sul piccolo palco al centro della scena. In un silenzio sospeso, estrasse dalla manica una pergamena, e con voce squittente iniziò a declamare: «In nome della città di Firmiona, del Regno di Olluria, dell'Eudopia Unita tutta e dei suoi abitanti, per ordine del Concilio cittadino presieduto dalla Suprema Corte Reale, chiamo qui a espiare le sue colpe Shimon Zuccasicci.»

Nuovamente la campana prese a suonare i suoi tristi rintocchi e dal portone del palazzo uscirono due gendarmi, uno secco e l'altro tozzo, che a forza di strattonate tirarono in scena un terzo uomo, incatenato mani e piedi.

Appena il prigioniero apparve, il popolo si abbandonò al proprio ruolo scagliandogli addosso ogni oggetto atto all'uopo, dai sassi alle frattaglie, e ricoprendolo degli insulti più variegati e licenziosi. Dal canto suo, quello rispondeva per le rime ad ogni parola che giungeva alle sue orecchie, ringhiando e sbavando come un animale rabbioso, atteggiamento che fomentava ulteriormente il pubblico.

I due gendarmi ebbero il loro daffare a trascinare il reo al centro del palco e a costringerlo in ginocchio. E ancora più complesso fu calmare gli animi della gente, che nonostante fosse apparso in scena anche un pingue prelato, non disdegnava di lanciare al condannato bestemmie e maledizioni.

Quando una calma apparente fu raggiunta, l'ufficiale giudiziario poté rimettere mano alla sua pergamena e proseguire la lettura della sentenza: «Shimon Zuccasicci, sei stato riconosciuto colpevole del reato di sodomia, stupro e omicidio plurimo aggravato dall’efferatezza, per questo motivo il Concilio cittadino di Firmiona ti condanna a morte tramite decapitazione.»

Un boato della folla seguì le ultime parole dell’uomo e subito una nuova gragnola di colpi venne a subissare il condannato, alcuni dei quali tirati con tanta maestria da convincere i gendarmi che sarebbe stato sufficiente lasciarlo in pasto al popolo. Anche il prete ne era convinto, tanto che recitò le poche parole di rito stando ben lontano dal condannato, che neppure ebbe modo di pronunciare ultime frasi di pentimento.

Solo quando la porta del palazzo di giustizia si aprì un’ultima volta, il silenzio e l’ordine ripresero il controllo della piazza.

In scena era infine giunto l’ultimo attore, quello che tutti attendevano. La sua figura non pareva in grado di destare particolare attrazione: era secco, escluso il ventre gonfiato da troppe birre, leggermente gobbo, di incedere claudicante, forse a causa della calzamaglia in cui era stretto. Non doveva neppure essere troppo giovane, a giudicare dalle mani strette sulla grossa ascia che portava sulla spalla. Era in effetti quella l’oggetto della totale ammirazione in cui era caduto il pubblico, oltre che a una vaga soggezione davanti al deforme cappuccio nero che costituiva il volto del boia.

Non che nel complesso facesse molta paura, ma un riguardoso rispetto gli era riservato da tutta la platea. Ad esclusione del condannato che, nonostante la posizione, prese a insultarlo in malo modo.

Il boia non si scompose, e se anche lo fece nessuno poté vedere il suo volto. Attese un cenno del prete, uno dell’ufficiale giudiziario e infine uno dalla guardia che teneva le catene, quindi sollevò l’ascia alta sulla testa.

Fu a quel punto che Morte prese la falce e assunse la postura.

Pochi istanti e l’anima sventurata fu al suo cospetto e lei l’accolse con il saluto di rito: «Benvenuto Steno Sondio. Seguimi, ti accompagnerò per l’ultimo tratto.»

L’uomo fu disorientato il giusto, del resto aveva una certa dimestichezza con la morte, e quando comprese la situazione, si abbandonò con rammarico a un commento: «Lo dicevo io che non mi sentivo bene stamattina. Era meglio se chiamavo il medico, invece di venire al lavoro.»

«Forse. Ma ormai…»

L’uomo si voltò là dove il suo corpo giaceva, unendo il suo sguardo ad altre centinaia di occhi increduli. L’ufficiale giudiziario e una delle guardie, dopo avergli tolto il cappuccio, stavano cercando di rianimarlo a suon di schiaffi. Il prelato aveva invece già iniziato a pregare.

«È stato il cuore, vero?»

«Sì»

«Lo sapevo, non avevo più l’età per questo mestiere.»

«Temo di no. Ma inutile disperarsene, ormai. Vieni andiamo.»

Il boia ebbe una titubanza. «Non aspettiamo lui?»

Il condannato, sebbene ancora stretto al ceppo dalle pesanti catene, stava ridendo in modo vile e sguaiato. Nessuno badava troppo a lui.

«No. Dovrà attendere che ti trovino un sostituto.»

Boia chi resta

1. Il cognato


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Aprì la porta di casa emettendo un sonoro sospiro.

Era un segnale convenuto, cui la moglie era solita reagire mettendo sul fuoco gli avanzi del pranzo, uno spuntino che gli serviva per preparare lo stomaco ai piatti della cena.

Aveva molte cose di cui lamentarsi, ma non delle abilità culinarie della sua consorte: oltre a rimpinguarlo di prelibatezze, permettevano alla famiglia di arrotondare il suo magro stipendio da guardia carceraria. Era ormai consuetudine, infatti, che Annarella fosse chiamata alle feste dei nobilotti locali, per mettere a disposizione la propria arte tra i fornelli.

Forse era successo proprio questo, perché a un secondo e marcato sospiro nessuna voce aveva risposto.

Florio avanzò circospetto, sperando in cuor suo di non trovarsi davanti agli occhi una scena che fin troppe volte negli ultimi sei mesi si era materializzata.

Invece, quando si affacciò in cucina, lo vide lì, curvo sui piatti in quella postura da sciacallo che lo contraddistingueva, un boccale della sua birra davanti alla faccia.

«Ah, sei tornato» salutò dopo aver posato il recipiente, la bocca ancora sporca di schiuma.

«Dov'è tua sorella?» chiese Florio lasciandosi cadere su una sedia.

«Al mercato, se ho ben capito.»

«Hai di nuovo svuotato la dispensa?»

Il giovane finse di non aver sentito e gli porse un piatto di avanzi, ormai vuoto.

Florio prese il poco che restava, solo per il gusto di non farlo finire in bocca al cognato. «È stata una giornata dura?»

«Non eccessivamente» ribatté l'altro, fissando l'ultimo boccone sparire nelle fauci del padrone di casa.

«Sarai stato in molte botteghe» aggiunse Florio, esasperando il tono sarcastico.

«Un paio…»

«Un paio… quali?»

«Sono stato dal ceramista, quello sul Dosso degli Amanti. Ma suo figlio ha deciso d'imparare il mestiere e non c'ha bisogno di apprendisti o di garzoni.»

«Certo, è naturale. E l'altra?»

Il giovane ingollò l'ultimo sorso di birra e lo squadrò come se non potesse metterlo a fuoco. «L'altra cosa?»

«L'altra bottega. Hai detto che sei stato in un paio di botteghe. Un paio sono due.»

«Ah, no, scusa, mi sono spiegato male.»

«Quindi sei stato solo dal ceramista.»

«Sì.»

«E tutto il resto della giornata cos'hai fatto?»

«Cosa vuoi che ho fatto» replicò con aria di sufficienza. «Sono stato alla locanda di Mirianda.»

«E lì hai incontrato altri potenziali datori di lavoro?» Poteva sembrare una domanda sarcastica ma non la era, e per due ottime ragioni: primo, suo cognato non l’avrebbe capita; secondo, c’era effettivamente la possibilità di ottenere un lavoro in quel genere di locande, ed erano il tipo di lavori che svolgevano le persone con cui Florio aveva quotidianamente a che fare, quelle che stavano dalla parte sbagliata delle sbarre.

«No, ho bevuto» rispose il giovane, mostrandosi disturbato dalla retorica della domanda. «Ora però scusami, mi butto un po' a letto che ho un terribile mal di testa. Chiamatemi quando è pronta la cena.»

Florio lo fissò allontanarsi con incedere claudicante verso lo sgabuzzino che gli avevano adibito a stanza, poi si portò la mano alle tempie e strinse forte nel tentativo di scacciare tutti i cattivi pensieri che l'indolenza del cognato gli procurava. Ma fu inutile. Ricorse allora all’estremo rimedio che aveva nascosto sotto un mattone smosso dell’acquaio: tabacco della Val Galimino.

Aveva promesso ad Annarella di smettere, e ci era anche riuscita, lei, a farlo smettere, a suon di sberle e serate mandate in bianco. Poi era morta sua suocera, il fratello di Annarella si era ritrovato in mezzo a una strada e loro obbligati a ospitarlo. E in un mese lui aveva ricominciato a fumare. Di nascosto.

Accese la sigaretta sulle braci e uscì di casa per evitare che l’odore lo tradisse. Ma proprio fuori dall’uscio incontrò il viso tondo e perennemente imbronciato della moglie, reso ancora più cupo dalla fatica nel reggere due pesanti borse.

«Non è come sembra» ribatté prontamente nascondendo la cicca in una mano.

Annarella posò le borse senza mai togliere gli occhi da quelli di Florio. Poi, con un gesto repentino, strappò la sigaretta dalle mani del marito. E se la mise in bocca.

Florio prese la spesa e la portò in casa, poi raggiunse la moglie che lo attendeva fuori. Insieme s’incamminarono giù per il calle.

«Dobbiamo fare qualcosa» dichiarò Annarella dopo pochi passi.

«Per Cordo?»

«Certo, idiota, per cosa altrimenti? Mio fratello ci sta rovinando. E se aspettiamo lui la situazione non cambierà. Oggi è stato in locanda tutto il giorno…»

«Prima è andato dal ceramista» si sorprese a dire Florio, neanche volesse difenderlo.

«A me ha detto d’esserci stato ieri.»

«Ah.»

Annarella tirò l’ultima boccata, senza curarsi di lasciarne un tiro al marito, e scagliò il mozzicone sul selciato fangoso. «Possibile che tu non possa fare niente? Cosa serve avere un impiego statale se non puoi sistemare questi problemi?»

«Serve ad avere uno stipendio sicuro…» protestò timidamente Florio. «E poi che dovrei fare? Chiedere al Capitano un lavoro per mio cognato?»

«Non mi pare un’idea così balorda.»

«Tu non capisci, anche se lo faccio il Capitano dovrebbe chiedere al Comandate della guarnigione, che a sua volta dovrà chiedere a qualche altro tizio che passa le sue giornate chiuso in un ufficio. Insomma, non si può mica assumere uno così, senza che ce n’è bi…»

Florio si bloccò in mezzo alla strada, e un improvviso e ampio sorriso cominciò a tagliargli il grugno in due.

Annarella si fermò due passi avanti a lui: «Oh, che c’hai, non starai mica tirando le cuoia, vero?» gli chiese scuotendolo con lieve apprensione.

Il sorriso di Florio si allargò mostrando allegramente due file di denti perfetti: «No, ma sto per risolvere il nostro problema!»

Boia chi resta

2. È soltanto lavoro


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Il Capitano Limes rilesse un’ultima volta il documento che campeggiava solitario sulla sua sguarnita scrivania. Non gli era mai servita una scrivania, così come non era mai servita al suo predecessore, e tanto meno al predecessore del suo predecessore, ma stava lì, in mezzo all’unico ufficio di cui il Corpo di Guardia Carceraria di Firmiona disponesse, perciò la usava.

Il più delle volte come poggiapiedi, occasionalmente tornava comoda per firmare qualche scartoffia. Quello specifico pezzo di pergamena non necessitava di una sua firma, ma era comunque sufficientemente pesante da necessitare un punto d’appoggio.

Lo piegò accuratamente lungo le due linee mediane, riducendolo a un quarto delle sue dimensioni, quelle necessarie per riporlo nel piccolo cassetto di cui la scrivania era dotata. In effetti più che una scrivania si trattava di un tavolaccio, ma per il Capitano Limes poco cambiava.

Si alzò stropicciandosi la faccia già parecchio sfibrata da una notte insonne. Non era uno che dormiva molto, il Capitano Limes, né quando perdeva la sua paga ai tavoli del baccarà, né quando vinceva. Nel secondo caso, per lo meno, la mattina dopo era di buon umore.

Prese a girare intorno alla scrivania col passo rabbioso d’un cane al guinzaglio. La morte di Steno era una rogna di buone proporzioni, che quel documento non aveva fatto altro che peggiorare. Sostituire il vecchio boia non sarebbe stato comunque facile, ma così…

E poi dove l’avrebbero trovato un altro come Steno?

Se la ricordava chiara come il giorno, la prima volta che, sedici anni prima, l’aveva incontrato, là sul patibolo. Aveva decapitato quel disgraziato con tale naturalezza che subito aveva pensato: "Quest’uomo è nato boia."

Solo dopo aveva scoperto che si era offerto volontario. Funzionava così, all’epoca: quando un boia lasciava, una delle guardie carcerarie veniva scelta per prenderne il posto. Si usava il classico metodo della pagliuzza, così gli aveva spiegato il suo mentore e predecessore, il Capitano Chiraz. Ma quella volta non era servito, Steno si era offerto sollevando gli altri dal rischio di quell’ingrato ruolo.

Se fosse valsa la stessa regola si sarebbe trovato in seri problemi. Oltre a lui, che in quanto Capitano non poteva essere degradato a boia, c’erano solo tre guardie che si sarebbero contese il ruolo: il sergente Florio Flovis e i due appuntati Martinuzzo e Polporo. Il primo era totalmente privo di spina dorsale e tutta la guarnigione sapeva chi portava i pantaloni a casa sua: la moglie sarebbe stata in effetti più adatta al ruolo. Martinuzzo e Polporo facevano un uomo in due, e neppure troppo sveglio: sospettava che non avrebbero saputo da che parte reggere l’accetta.

Ma le regole erano cambiate e nessuno dei tre si sarebbe dovuto sacrificare. Ciononostante non riusciva a sentirsi sollevato, tutt’altro.

Fece in tempo a fare altri otto giri intorno alla scrivania prima che qualcuno bussasse alla porta.

«Che c’è, Polporo» accolse l’uomo, entrato senza aspettare il suo benestare.

«’giorno Capità» salutò quello, strofinandosi l’abbondante ventre. Lo faceva in continuazione e Limes lo trovava parecchio irritante. «Stamattina mi so’ svegliato con in testa la questione del boia.»

«Tranquillo, non toccherà a te.»

«A no? Ottimo, ma non è che me ne preoccupassi.» Si era avvicinato alla scrivania dietro cui il Capitano era tornato a sedersi. O forse nascondersi.

«Perché, vorresti farlo tu?»

«Io? No, no, per carità, non tengo il polso giusto. Ma conosco una persona che sarebbe perfetta, noi la facciamo guardia e il problema è risolto.»

Limes posò i gomiti sulla scrivania e si incastrò la faccia tra le mani, in attesa.

«È un mio cugino di secondo grado, ha anche lavorato per qualche mese con un macellaio, insomma la mano ce l’ha buona.»

«Va bene, fallo venire. Dopodomani, a mezzogiorno.»

Il sottoposto parve disorientato. «Ah, dopo… domani? Davvero?»

«Sì, davvero. Dopodomani. Adesso vai, ho delle faccende da sbrigare.»

L’appuntato Polporo girò su stesso e uscì dalla stanza, dando quasi l’impressione di rotolare.

Limes si stropicciò nuovamente il viso, ma non ebbe il tempo di formulare nessun pensiero che di nuovo bussarono alla porta. «Che vuoi ancora, Polporo?»

L’uscio si aprì timidamente, facendo spazio al viso ossuto dell’appuntato Martinuzzo.

«Scusa, Martinuzzo, pensavo… vieni, vieni avanti.»

L’uomo entrò e si avvicinò alla scrivania tenendo stoicamente la sua inconfondibile andatura da avvoltoio. Erano coetanei ma Martinuzzo dimostrava almeno il doppio dei suoi anni. Si piazzò davanti a lui e lo fissò: aveva anche gli occhi da avvoltoio.

«Dimmi» lo incoraggiò il Capitano.

«Steno…» disse dopo un momento interminabile.

«Tranquillo, non toccherà a nessuno di noi sostituirlo. Assumeremo uno nuovo.»

«Bene» rispose, senza apparire davvero rincuorato. «Ci sarebbe il nipote di una mia sorella…»

Limes attese la fine della frase, che non arrivò. «Digli di venire dopodomani, a mezzogiorno.»

L’appuntato Martinuzzo se ne uscì così come era entrato.

Il Capitano tirò nuovamente fuori il documento dal cassetto e lo rilesse, tanto per essere sicuro. Non lo finì che per la terza volta qualcuno bussò. Lo riconobbe dal tocco: «Entra, Sergente.»

Il Sergente Flovis ubbidì, eseguendo un perfetto saluto militare.

Limes ammirava il suo rigore: era sempre inappuntabile, la divisa perfetta, ogni protocollo rispettato alla lettera. Ed era dannatamente bello. Avrebbe fatto una carriera sfavillante se non fosse stato un gregario per natura, uno smidollato. Cosa di cui in fondo gli era grato.

«Fammi indovinare, sei qui per la questione del boia?»

«Sì, Capitano.»

«Non avrai mica anche tu qualche parente da propormi, vero?»

Il Sergente Flovis vacillò in modo quasi impercettibile. «Se ci penso, potrei trovarne uno…»

«Ottimo, digli di venire dopodomani. A mezzogiorno» e gli porse il documento.

Il Sergente lesse. Due volte. «Un’ordinanza pubblica di assunzione?»

«Una nuova legge Governativa. Pare che ora le cariche pubbliche debbano essere assegnate dopo un’audizione aperta a chiunque.»

«Ma questo annuncio…»

«È già esposto nelle pubbliche bacheche, lo hanno affisso all’alba.»

Florio vacillò ancora, vistosamente «Ma chi vuole che si candidi, per un posto così?»

«I peggiori balordi in circolazione» affermò sicuro il Capitano. «Ma tranquillo, siamo noi a fare la selezione. C’è speranza per tuo cugino.»

«Mio cognato, Capitano.»

«Quel che è…»

Boia chi resta

3. Colloqui sulla morte


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Florio lanciò un’occhiata furtiva fuori dalla finestra della guardiola, l’unico punto da cui poteva vedere il campanile: mancava un quarto di giro a mezzogiorno. Il suo stomaco in effetti lo confermava.

Tornò dal Capitano che, fregandosene altamente del regolamento, stava seduto su una panca del miglio a mangiarsi un panino contenente una fetta di carne unta. Zuccasicci, da dietro le sbarre, lo fissava con la bava alla bocca, bestemmiando Abàtar ad ogni morso. Il Capitano allora mugolava di piacere, lasciandosi scivolare il boccone giù in gola.

«Vuoi un morso?» gli chiese vedendolo arrivare.

Florio rinunciò, mettendo l’etica professionale davanti alla fame. «Mancano quindici minuti, Capitano. Che faccio, apro le porte?»

«No, aspetta che suonino le campane. Poi fai entrare chi c’è e chiudi subito. I ritardatari torneranno la prossima volta.»

Il Sergente non obbiettò, era in effetti la soluzione migliore. Anche Annarella avrebbe fatto lo stesso. Questo però non risolveva il suo dramma: non avendo finestre che davano sulla strada, come poteva verificare che suo cognato si fosse presentato davvero?

Non poteva, e infatti rimase a rodersi di dubbi fino al primo rintocco del mezzodì, quando il Capitano apparve nella guardiola e aggiustandosi alla meglio la divisa ordinò: «Polporo, Martinuzzo, aprite il portone. Diamo il benvenuto ai candidati.»

I due appuntati si mossero con fare indolente verso il portone sulla piazza del patibolo, e tirarono le sue possenti ante che strisciarono sulle pietre con fastidiosi stridii. Il Capitano e il Sergente si posizionarono sul lato dell’atrio, assumendo un tono il più possibile marziale, così da donare all’evento una parvenza di ufficialità (cosa che, in effetti, aveva).

Da quella posizione poterono godere in anteprima della parata di candidati.

Florio ebbe un sussulto, quando vide i sei entrare in una fila disordinata: il primo era un individuo piccolo, con lo sguardo perfido e il sorriso sghembo apparso spesso sui ritratti dei ricercati che finivano col collo sul ceppo; il secondo era un uomo di mezz’età, con l’aria triste di chi aveva troppe bocche da sfamare e il ventre gonfio di chi preferiva investire i baiocchi in birra; la terza non solo era una donna, ma pure giovane e avvenente; il quarto era un uomo ben piazzato, le braccia robuste e il fisico allenato di chi era abituato a lavori pesanti, lo sguardo ottuso di chi poco altro avrebbe potuto fare; il quinto appariva tanto insignificante da non riuscire a dargli una connotazione; il sesto era un gigante di oltre due metri d’altezza e forse altrettanti in larghezza, nero come la notte più buia.

Suo cognato non c’era.

Poi le porte si chiusero con un tonfo e il Capitano Limes fece un passo avanti: «Signori e… signore… benvenuti alla Guardia Carceraria di Firmiona.» Lo disse esattamente così, con tutte quelle maiuscole. «Io sono il Capitano Limes e sono al comando di questa guarnigione. Sarò io, insieme ai miei uomini, i vostri futuri colleghi, a scegliere l’uomo giusto per coprire questo delicato ruolo.»

Florio ammirava la dialettica del Capitano, sembrava che le parole fossero già tutte nella sua testa e lui non dovesse fare altro che aprire la bocca e farle uscire. Se fosse stato bravo anche solo la metà del Capitano, avrebbe sicuramente fatto molta più carriera. Annarella glielo diceva sempre.

«Bene, prima di procedere mi piacerebbe che condividessimo tutti insieme le motivazioni che vi hanno portato qui.» Si avvicinò con piccoli passi studiati al primo della fila, il piccoletto con la faccia da assassino: «Qual è il tuo nome?»

«Bertolo» rispose quello, sogghignando.

«Perché ti sei candidato?»

«Mi piacciono le asce. Mi piacciono anche i coltelli, ma le asce di più. Avrei molta cura delle vostre asce.»

«Ottimo, bene, ne terremo conto» tagliò corto il Capitano, lanciando a Florio un’occhiata eloquente. Il Sergente appuntò quel silente commento sul suo taccuino, a fianco del nome del candidato.

«Tu invece, come ti chiami?»

«Willam. Willam Bordo.»

«Bene. E ti sei candidato perché…»

«Ho sette figli, signore. E un ottavo in arrivo.»

«Mi sembra una lodevole motivazione. E tu?»

La ragazza squadrò il Capitano con malcelata diffidenza. «Mi chiamo Karina e sono qui per la mia emancipazione.»

Il Capitano lanciò un’occhiata interrogativa al Sergente e Florio cercò di tranquillizzarlo. Poi scrisse tutto.

«Anche questa mi sembra un’ottima motivazione.»

«La ringrazio, Capitano» rispose quella, ma Limes era già passato oltre.

«Meridio Appio, Capitano» disse il quarto candidato facendo un perfetto saluto militare.

«Un soldato, se gli occhi non m’ingannano.»

«Sì, signore, sono stato per cinque anni una Falce d’Acciaio. Mi sono trasferito a Firmiona da pochi giorni.»

Florio conosceva di fama quella guarnigione mercenaria, uomini senza scrupoli ma leali al loro padrone. Appuntò tutto.

Il Capitano era già passato oltre e fissava il successivo candidato come se non capisse da che parte stesse la faccia.

«Io mi chiamo Ulmo, signore» rispose quello dopo un po’, senza che la domanda fosse stata pronunciata. «Sono qui su suggerimento di un mio parente.»

Il Capitano fece un cenno d’assenso e si voltò verso il Sergente. Florio scosse la testa convinto. Allora Limes lanciò uno sguardo agli appuntanti, ancora fermi davanti al portone. Sia Polporo sia Martinuzzo annuirono leggermente.

Florio non capì, ma visto che il Capitano parve rincuorato da quello scambio, segnò tutto sul taccuino.

Limes arrivò al gigante. Il Capitano era un uomo di buona stazza ma davanti a quel tizio pareva un bambino.

«Sei Salleziano, vedo.» Era un’ovvietà, ma il Capitano parve prendere sicurezza dall’affermarlo ad alta voce.

«Sono Dec-ah-list.»

«Sì, infatti, mi sembra… e sei qui per…»

«Soldi.»

«Ecco, certo, mi pare giusto. Mentre tu sei?» chiese passando all’ultimo.

Florio non capì subito a chi si stesse rivolgendo, il ragazzo era quasi invisibile a fianco di quella montagna nera.

«Mi chiamo Cordo, signor Capitano, e sono qui perché ho a cuore il rispetto della giustizia cittadina» pronunciò il giovane in modo alquanto meccanico.

Il Capitano Limes si voltò deciso verso il Sergente. Florio annuì lievemente, il cuore leggero e sul volto un sorriso carico di soddisfazione.

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4. Ne resterà soltanto uno


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Limes guardò la fila di candidati celando ogni pensiero dietro uno sguardo professionale. Doveva ammettere, almeno a se stesso, d’essersi sbagliato: non era la peggior marmaglia in circolazione. Almeno un paio si salvavano, non tra i parenti dei suoi sottoposti ma poco importava.

«Bene, signori, ora io e i miei colleghi ci riuniremo per discutere le vostre candidature…»

«Tutto qui?» Era stata la ragazza a interromperlo.

Chiuse gli occhi per non aprire la bocca: cosa pretendeva? Doveva già essere contenta che l’avessero fatta entrare, una con quel corpo era più adatta ad altri mestieri.

«L’ordinanza di assunzione emanata dal Governo dei Tre Regni impone che i ruoli istituzionali non solo vengano assegnati per pubblica affissione ma anche attraverso una regolare selezione attitudinale.»

Limes fece un lungo sospiro. Curve da cortigiana, lingua da avvocato, per quale insano motivo voleva un posto da boia? «Certo, signorina, lo so bene. Infatti ora io e i miei colleghi andiamo a preparare le prove, per la selezione.»

La donna non parve convinta ma non poté ribattere.

Il Capitano sorrise, e con un cenno ai suoi s’infilò nel suo ufficio.

«Abbiamo delle prove?» chiese allarmato il Sergente, non appena ebbero chiuso la porta alle loro spalle.

«Le avremo, se non vogliamo che quella donna ci procuri qualche guaio. Hai visto il suo sguardo?»

«Capità, lei solo ha guardato gli occhi!» ridacchiò Polporo.

«Basta! Questo poco importa, ha comunque ragione lei. E poi avremmo dovuto farlo lo stesso, non voglio fare preferenze tra i vostri parenti e un modo per scegliere la persona giusta bisognava pur trovarlo.»

«Beh, Capità, quello giusto è chiaramente il gigante. Mio cugino è un brav’uomo ma quello pare nato boia, non c’ha manco bisogno dell’ascia, li fa secchi di paura.»

«Tu vuoi davvero un negro come collega?» sbottò Limes.

«No, io ci vorrei mio cugino, ma…»

«E allora dimmi qual è, tuo cugino.»

«Ulmo.»

«Non me lo ricordo, qual è?»

Polporo ridacchiò ancora: «Eh, lui fa sempre ‘sto effetto qui, c’ha una faccia che non la ricordi mai.»

«Sì, va bene, e il tuo qual è» chiese rivolgendosi all’appuntato Martinuzzo.

«Ulmo» sillabò quello.

«Lo stesso Ulmo?»

Martinuzzo annuì. Polporo strabuzzò gli occhi: «Ma dai, siamo parenti allora! Vieni qua, cugino!» e, senza aspettare una reazione del collega, l’abbracciò.

Limes alzò gli occhi al cielo e si rivolse al Sergente, che pareva sempre più frastornato: «Il tuo è Cordo, vero?»

«Come?»

«Tuo cugino… no, cognato, è quel Cordo, vero? Ho riconosciuto il tuo indottrinamento.»

«Sì, Capitano, è lui.»

«Bene, mi pare parta avvantaggiato rispetto a…» si voltò: Polporo stava ancora abbracciando Martinuzzo «Sì, insomma…»

«Ulmo» intervenne il Sergente controllando i suoi appunti.

«Sì, quello.»

«Forse, Capitano, ma è sicuramente svantaggiato rispetto al salleziano. E anche quel Meridio Appio, la Falce d’Acciaio, mi pare un buon candidato.»

«Vero, piace anche a me. Ma tranquillo, faremo in modo che smetta d’esserlo. Ora andiamo, facciamo fare una gita ai nostri ospiti, intanto ci verrà in mente qualcosa.»

Il Capitano Limes imboccò nuovamente la porta. Nella mente gli vorticava un universo di improperi e maledizioni, che saettavano tra i dubbi, ma si stampò in faccia la miglior espressione da Capitano di cui disponesse e dichiarò: «Signori, seguiteci, la selezione ha inizio, e quando avremo finito ne resterà uno solo.»

I sette candidati erano nella medesima posizione in cui li aveva lasciati, e al comando si disposero in buon ordine alle sue spalle. Il Sergente si mise in coda al corteo insieme agli appuntati: Polporo stava ancora stringendo le spalle a Martinuzzo.

«Signori, stiamo per entrare nel cuore della Guardia Carceraria, quello che noi chiamiamo il Miglio Verde. È un nome bizzarro, lo so, dato che non c’è nulla di verde, le cui origini sono andate perdute ormai da secoli, ma ancora lo usiamo per riferirci al braccio della morte» e con un gesto piuttosto teatrale aprì una porta.

I sette candidati lo seguirono all’interno di una lunga stanza, illuminata da due strette feritoie e una torcia sulla parete d’ingresso: dentro solo due vecchie sedie occupavano l’angusto spazio antecedente le otto celle.

I cubicoli, delimitati da pareti ammuffite e da spessi tondini di ferro, erano bui e sudici, e un inconfondibile fetore di piscia ne permeava ogni mattone.

Qualcuno trattenne un conato di vomito e il Capitano Limes memorizzò mentalmente i colpevoli. Florio stava facendo lo stesso sul suo taccuino ma lo vide fermarsi: avrebbe dovuto appuntare il nome di suo cognato, oltre a quello del cugino degli appuntati.

«Qui dentro i condannati trascorrono gli ultimi giorni in attesa del boia» continuò il Capitano, facendosi da parte in un gesto che era chiaramente un invito a fare una passeggiata tra le celle.

I più parvero accogliere di buon grado la sfida. Meridio e Karina furono i primi ad avanzare, seguiti a ruota da Willam Bordo, il padre di famiglia. Non che questi ci tenesse ad essere in prima fila, ma era rimasto schiacciato tra la donna e il gigante salleziano che gli era dietro. Chiudeva il corteo il piccoletto dall’aria omicida. Cordo e Ulmo non si erano mossi.

«Come potete vedere a questi bastardi non risparmiamo proprio nulla, anzi, ci impegniamo affinché i loro ultimi giorni su questa terra siano il peggio possibile.»

Stava per sottolineare il concetto con una risatina maligna, ma fu interrotto.

Un braccio lurido emerse dal buio della cella due: con un gesto fulmineo tentò d’agguantare Karina, ma la giovane fu svelta a evitarlo e tra quegli artigli finì Willam Bordo.

L’uomo, tirato con violenza contro le sbarre, provò a gridare, ma quando dalla grata vide emergere il volto osceno di Zuccasicci, ingoiò ogni parola.

Il condannato, invece, non si trattenne: «Ora, carogne, aprite la gabbia o giuro su Babuz che cavo gli occhi a questo scemo e poi me li mangio.»

Boia chi resta

5. Con il coltello in mano


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Florio non era mai stato un uomo coraggioso. L’atto più spregiudicato che avesse mai compiuto in vita sua era stato chiedere in moglie Annarella. Quella però era la tipica situazione in cui l’intervento di un uomo coraggioso poteva essere risolutivo.

Per fortuna il Capitano Limes era discretamente ardimentoso. O almeno lo era sui tavoli da gioco, da quanto aveva sentito dire in giro.

Di sicuro era dotato di una certa dose di macabra ironia: «Te lo lascerei fare solo per vedere la tua faccia mentre mastichi un occhio umano.»

«Vuoi anche vedere come t’infilzo il cuore di questo scemo?»

La voce era arrivata dalla parte opposta, vicino alla porta d’uscita, dove stavano Cordo e Ulmo. Dietro quest’ultimo si era portato, con un gesto rapidissimo, il piccoletto e ora gli puntava un lungo pugnale proprio all’altezza del ventricolo sinistro, sfoggiando uno sguardo più assassino del solito.

A Florio scivolò il taccuino di mano, e non per lo sguardo del delinquente ma per quello del Capitano.

«Ma dannazione, non li avete perquisiti?» sbottò Limes infilando poi una catena di improperi.

«Eh, Capità, lei mica c’aveva detto nulla» protestò Polporo, immobile fuori dalla stanza.

«Non è quello che si fa sempre le poche volte che viene un visitatore?»

«Ma questi mica sono visitatori, son quasi colleghi.» Polporo era l’unico che poteva permettersi di parlare al Capitano quando c’aveva in faccia quell’espressione: la parte sotto ricordava il ringhio di un mastino cui avevano rubato l’osso, mentre gli occhi si facevano cerchi e spingevano la fronte in un ammasso fittissimo di pieghe.

«Allora, Capitano, vuole davvero vedere come si mangia un occhio?»

Da dietro le sbarre, Zuccasicci stava mostrando, soddisfatto, un ampio sorriso di denti marci. Willam Bordo gli tremava tra le mani, il volto di pietra e un’ampia chiazza che andava allargandosi sulle braghe.

Anche Florio sentì la vescica farsi cedevole: gli scappava sempre in situazioni di stress. Cercò uno scambio di sguardi con il cognato, ma quello era intento a fissare la lama che per pura fortuna si trovava a un pollice dal cuore di un altro. Per lo meno non se l’era ancora fatta sotto.

«Manteniamo la calma» disse Limes, probabilmente a sé stesso. «Non c’è bisogno che nessuno si faccia male» aggiunse alzando le mani e facendo un passo verso la cella.

Florio lo vide avanzare ancora e con un lento movimento della testa osservare tutti i presenti. Ebbe la sensazione che si fosse soffermato un attimo di più a guardare lui. Forse sperava in una qualche suo intervento, ma cosa poteva fare? Non era un uomo d’azione, lo sapeva bene, e poi se si fosse mosso la sua vescica non avrebbe retto.

Il Capitano fece un altro passo e allargò la giacca per mostrare a Zuccasicci le chiavi che portava legate al cinturone. E di nuovo guardò verso di lui, con chiara intenzione. E Florio sentì il peso della divisa che indossava. Non poteva soccombere alla paura, era pur sempre una guardia!

Studiò rapidamente la situazione: appena fuori dalla stanza c’erano i due appuntanti, fermi in attesa di un ordine qualunque; davanti a loro, schiena al muro, c’era suo cognato e quell’altro tizio imparentato con i suoi colleghi, che faceva da scudo al piccoletto col pugnale; un metro più in là, esattamente di fronte a lui, c’era il salleziano, il volto totalmente inespressivo di chi non è interessato alle sorti del mondo, e forse neppure alle proprie; lui occupava l’unico slargo della stanza, quello dove c’erano le due sedie, una delle quali gli stava facendo da stampella; il Capitano era nel centro esatto, davanti alla cella numero uno e di fronte al povero Willam Bordo, che ormai non si reggeva più in piedi; oltre di lui, affiancati nello stesso corridoio a fissare increduli la scena, restavano Karina e Meridio.

Insomma, non sembrava una situazione complicata, non fosse stato per la presenza di sei civili disarmati, due dei quali con alte probabilità di non uscirne indenni.

«Adesso ti apro, va bene? Ma lascia tutti i pezzi a questo povero padre di famiglia» disse il Capitano prendendo le chiavi e lanciandogli l’ennesimo sguardo d’intesa.

Florio continuava a non capire.

«Tranquillo Capitano, tu fai il bravo e noi faremo i bravi» ghignò Zuccasicci.

La serratura scattò.

Zuccasicci strisciò fuori tendo Willam Bordo davanti a sé e le spalle contro le sbarre. «Ora entra tu, Capitano, e chiuditi dentro» ringhiò.

Limes tentennò guardando ancora il Sergente.

«Bertolo, fai vedere al Capitano che facciamo sul serio.»

«No, entro, entro» fece due passi nella cella, tirandosi dietro la porta. E lanciò un ultimo sguardo al Sergente.

Florio era nel panico, le gambe in fremito per la vescica debole. Mentre Zuccasicci avanzava con quell’orrido ghigno in faccia, lui indietreggiava, cercando conforto negli altri. Poi lo vide, impercettibile, forse immaginato: un cambio d’espressione nel salleziano.

Allora si buttò.

Narrare ciò che accadde in modo fedele alla realtà sarebbe impossibile, poiché avvenne tutto simultaneamente. Immaginate perciò ognuna delle seguenti azioni come causa e al contempo effetto di quella successivamente descritta.

Il Sergente, in quello spasmo di coraggio, si scagliò contro il delinquente, ma incespicò nella sedia e finì per travolgere Willam Bordo, schiacciandolo contro il muro.

Il salleziano sollevò l’enorme pugno con una rapidità quasi innaturale, data la sua mole, e andò a incastrarlo nella mascella del piccoletto, che si trovava alla giusta altezza. Bertolo passò dalla coscienza all’incoscienza senza aver modo di comprendere cosa fosse accaduto.

Karina e Meridio si mossero in contemporanea, come per un perfetto quanto bizzarro passo di danza, e si gettarono a corpo morto su Zuccasicci, mandandolo lungo e disteso sul pavimento. Altrettanto contemporaneamente alzarono il braccio e colpirono il delinquente alla nuca con una gomitata.

Cordo si gettò a terra, nel disperato tentativo di salvarsi la pelle. Se Zuccasicci non fosse stato fermato prima, il suo gesto si sarebbe rilevato determinate: il delinquente sarebbe incespicato sul suo corpo finendo tra i piedi dei due appuntati, che a scanso di equivoci avevano lasciato libero il passaggio.

Boia chi resta

6. Il guerriero sotto esame


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Il Capitano Limes strinse la mano all’uomo; gli sembrò d’afferrare un pesce.

«Ci dispiace immensamente per l’accaduto, così come il vederti rinunciare.»

La seconda parte era ovviamente una bugia, ma a Willam Bordo non importava più di quanto gli interessasse il posto da boia. In fondo si era presentato solo per zittire la moglie. Ciò che gli premeva davvero era cambiarsi i pantaloni.

Limes lo osservò andarsene a passo svelto, e non poté biasimarlo.

«Bene, due in meno» sussurrò al Sergente tornando in ufficio e lanciando un’occhiata in tralice ai candidati rimasti, nuovamente in bell’ordine nell’atrio della gendarmeria.

«Che ne facciamo di quel Bertolo? Non possiamo tenerlo qui, non ancora, almeno.» Il Sergente si preoccupava sempre troppo dei regolamenti.

«Prima risolviamo la questione del boia, poi lo manderemo a prendere. Tanto non credo si sveglierà molto presto. Ora recupera qualche pergamena e dei carboncini, mi è venuta un’idea.»

Florio lo guardò come fosse stato un cane pronto a scavare una buca in giardino. Aveva una inspiegabile capacità di farlo sentire in colpa tutte le volte che percorreva strade al limite del regolamento, o anche solo quando pensava di percorrerle.

«Voglio proporre un esame scritto, sulla storia cittadina. Quel salleziano è sicuramente analfabeta, non saprà neppure scrivere il suo nome.»

«Se è per questo anche mio cognato credo abbia difficoltà nello scrivere il suo nome…»

«Ah…» Corrugò la fronte nel tentativo di leggere nella mente del collega: «Ma con la storia cittadina se la cava bene, no?»

«Qualcosa credo sappia.»

«E allora faremo un interrogatorio.»

Il Sergente lo fissò ancora in quella maniera supponente. «Un’interrogazione…»

«Sì, quella. Sono certo che quel negro non sa niente della nostra cultura.»

«Forse no, ma ha un destro micidiale.»

Il Capitano Limes ignorò il sottinteso e gli chiese di convocare il primo candidato. Il Sergente consultò il suo taccuino e uscì a chiamare Karina.

La donna entrò nell’ufficio con movenze feline. A Limes bastò uno scambio di sguardi per capire che non stava tentando di circuirlo, era la sua camminata naturale. Altrimenti non si spiegava perché con gli occhi pareva volerlo uccidere.

«Spero che vorrete iniziare la selezione attitudinale prevista dall’ordinanza» esordì sedendosi davanti a lui.

Limes non si scompose: «Sei qui per questo, cominciamo con un… una interrogazione. Vorrei che mi dicessi quando è stata introdotta la pena di morte a Firmiona.»

Un sorriso morbido si distese sul viso della giovane. Pareva pronta a divorarlo. «È stato l’editto di Re Ignazio il Sadico, centoventotto anni fa, a reintrodurla, dopo una pausa durata tre secoli. In precedenza era stato per ordine del Governatore cittadino, Berenzio, che le decapitazioni erano tornate di moda. Ma ancor prima…»

Karina non aveva solo un corpo da capogiro ma anche una voce calda e sensuale. Limes si perse nell’ascoltarla come fosse stata musica e non seppe dire quando smise di capire cosa stesse dicendo, ma probabilmente parecchio tempo prima. Fu una gomitata del Sergente a riportarlo alla realtà.

«Bene, signorina, puoi andare.»

Quella si alzò con il piglio di chi ha la vittoria in tasca e il Sergente la seguì per far entrare il secondo candidato, Meridio Appio.

Limes lo accolse con un bonario sorriso: «Non ho ancora avuto modo di ringraziarti per l’intervento durante quel piccolo incidente…»

«Dovere, Capitano.»

«Bene, ora perdonami ma abbiamo questa formalità, dovresti rispondere a qualche domanda.»

«Se posso, volentieri.»

«Sai dirmi quando è stata introdotta la pena di morte a Firmiona?»

Il guerriero pensò pochi instanti. «No, mi spiace signore, io sono originario della Galemia, sono qui da pochi giorni.»

«Ah.» Il Capitano conosceva la geografia il minimo indispensabile per sapere che il confine con la Galemia distava parecchie miglia, e che era composto per lo più da montagne inaccessibili. Insomma, era lontana, come la maggior parte dei posti che non fossero Firmiona. «Però sai sicuramente dirmi chi è il Governatore della città.»

«Ne ho sentito parlare… c’era forse il suo nome sull’editto, nella bacheca… Mi pare con la N… Nondiano, Nobbiano…»

«Moltareno, Conte Moltareno della Forra» sospirò il Capitano.

«Sì, ecco, c’ero quasi» sorrise l’altro, per nulla impensierito dalla sua prestazione. «Avrò comunque tempo per impararlo.»

«Prima o poi» commentò ad alta voce il Sergente.

Limes gli riservò un’occhiata di rimprovero e fece un ultimo tentativo: «Il nome del nostro Re, invece…»

Il guerriero completò la frase senza tentennamenti: «Marazio III, il benevolo.»

Il Capitano fissò il vuoto e senza tradire emozione disse: «È morto l’anno scorso, ora c’è suo figlio, Igenzio II.»

«Ah. Beh, condoglianze, allora.»

«Direi che il signor Appio può andare, concorda, Capitano?»

Il tono da primo della classe del Sergente lo irritava sopra ogni cosa, anche se era tutta apparenza e nessuna sostanza. «Sì, può andare» sbottò.

Il guerriero uscì dalla stanza senza essersi reso davvero conto di cosa fosse successo.

«Dica la verità, Capitano, voleva darlo a lui il posto?»

«Più adeguato dei vostri perenti lo è di sicuro, non puoi negarlo.»

«Non lo nego, però non possiamo fargli tagliare teste in nome del Re e del Governatore se neppure sa chi sono.»

Un "può sempre impararlo" sfiorò le labbra di Limes che poi disse ad alta voce: «Vorrà dire che ne elimineremo due in un colpo solo. Fai entrare il salleziano.»

Il Sergente eseguì e l’uomo si presentò sulla soglia dell’ufficio. Dovette chinarsi e ruotare il busto per passare.

Florio gli indicò una sedia. Il Capitano ebbe l’impressione che quella, se avesse avuto una coscienza, sarebbe fuggita pur di non sopportare il peso del gigante. In effetti gemette come fosse stata viva quando l’uomo vi si sedette.

«Bene, io adesso fare a te qualche domanda, va bene?» Limes, ripensò a ciò che aveva detto: gli era venuto spontaneo parare come un idiota.

«Va bene.»

«Sai da quando c’è la pena di morte a Firmiona?»

«Molto tempo» rispose il salleziano.

Limes iniziò a rallegrarsi.

«Centovettotto anni» aggiunse quello, freddando l’entusiasmo del Capitano.

«Ed è stata voluta da…»

«Un certo Re Ignazio, che non va confuso con quello di oggi, Re Igenzio II, anche se penso proprio che sono parenti.»

Il Sergente, sempre in piedi alla sua destra, annuì grattandosi il mento.

«E chi è che decide la pena di morte per un condannato?»

«Molte persone decidono. Il Governatore Moltareno, Re Igenzio II, oppure c’è una cosa che si chiama Suprema Corte Reale…»

«Sì, sì, va bene.» Il Capitano lanciò uno sguardo d’intesa al Sergente. Aveva finito le domande e sperava di mettere il salleziano in difficoltà con la cavillosa conoscenza burocratica del collega.

Il Sergente annuì di nuovo: «Bene, può andare» dichiarò con formale rigore, dimostrando al Capitano come fosse ancora necessario lavorare sull’affiatamento della squadra.

Boia chi resta

7. Il boia veste Prada


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Solo dopo aver chiuso la porta alle spalle del salleziano, Florio si rese conto.

«Voleva che gli facessi qualche domanda, vero?» chiese al Capitano Limes, che si stringeva la testa appoggiato alla sua scrivania.

«Credevo volessi darlo a tuo cognato, il posto.»

«Certo che voglio.»

«E allora dammi una mano.»

«È che mi pareva scorretto…»

Il Capitano lo fissò con gli occhi a fessura, lo faceva sempre quando voleva sottolineare un concetto ovvio ma sottinteso, un silenzio su cui correva il segreto linguaggio delle guardie cittadine.

«E allora perché…» tentò una timida obiezione.

«Siamo pur sempre guardie. Adesso vai a chiamare tuo cognato.»

Cordo si sedette davanti al Capitano, alle spalle del quale Florio si era molto prudentemente posizionato.

Il Capitano, che non brillava certo in fantasia, esordì: «Sai da quanti anni c’è la pena di morte a Firmiona?»

Lo sguardo di Cordo vagò nel vuoto per diversi momenti e poi incrociò, quasi casualmente, le dita di Florio che stavano mimando un numero a tre cifre.

«Uno… Dodici, sì dodici… no, non dodici, uno… otto… uno e ventotto!»

Florio non lo vide, ma immaginò il Capitano fare un altro di quei suoi sguardi a fessura.

«Forse intendi centoventotto?»

«Sì, proprio quello!» esultò Cordo.

Il Capitano annuì sconsolato: «Bene, puoi andare.»

Florio accompagnò il cognato e si voltò verso il Capitano: era decisamente più stanco del solito. In effetti era una delle giornate più impegnative che ricordava d’aver vissuto lì alla guardia carceraria.

«Bene, direi che Meridio Appio è fuori. Pensaci tu a congedarlo, io intanto m’invento qualcos’altro per liquidare la ragazzina e il negro.»

Florio raramente disapprovava le opinioni del Capitano, non perché le trovasse molto argute, era solo pigrizia. Questa però era una di quelle rare volte: la signorina Karina e quel Decalisto erano due candidati interessanti, e se non fosse stato per il problema di suo cognato avrebbe difeso la loro posizione.

Ma c’era il problema di suo cognato, e adesso che ci pensava non era l’unico ad avere quel problema.

«Ci siamo dimenticati il cugino di Polporo e Martinuzzo.»

Limes fece ancora quello sguardo a fessura: «Chi?»

Ulmo ci mise meno di un minuto a entrare, dire «Centoventotto» e uscire.

Florio ci mise un po’ di più a comunicare a Meridio Appio la fine della sua avventura nel corpo delle guardie carcerarie di Firmiona. Ma il soldato parve prenderla con filosofia, gli diede una vigorosa stretta di mano, lo stesso fece con i suoi compagni ancora in gara per il posto, e se ne andò.

Restavano quattro candidati, due dei quali stavano nascondendo una smorfia di dolore mentre si strofinavano la mano vittima del saluto. E non erano i due che avrebbero voluto eliminare.

Florio cominciava a sentirsi, neanche troppo vagamente, in colpa.

Ma l’entusiasmo con cui il Capitano uscì dall’ufficio cancellò per un momento ogni remora: «Bene, signori, è giunto il momento di vestire i panni di un boia. Seguitemi.»

Florio trottò rapido al suo fianco: non era mai un buon segno quando Limes era troppo sicuro di sé. «Cos’ha in mente?» sussurrò.

«Vedrai, li facciamo fuori entrambi in un colpo solo» sogghignò a denti stretti.

Dopo qualche rampa di scale arrivarono a uno stanzino male illuminato da una finestra lercia e intriso dal fetore di umido e sudore. Era il guardaroba della guardia.

«L’attuale divisa del boia di Firmiona è parte integrante del suo ruolo. È stata disegnata centoventotto anni fa per volere di Re Ignazio da Prada Vistosa, una sarta dell’epoca molto richiesta dai nobili locali.»

Florio, incantato dalla verbosità del suo collega, fu distratto da una gomitata nelle costole. Era Polporo: «Ma davvero è vera questa cosa?»

Il Sergente scrutò la maschera di imperscrutabile carisma indossata dal Capitano: «Da oggi lo è» rispose senza scomporsi.

A onor del vero non si trattava di una frottola bella e buona. Era veramente esistita una famosa sarta conosciuta come Prada Vistosa, ed era altrettanto vero che Re Ignazio le avesse chiesto in più di un occasione di disegnare alcuni abiti suoi e dei suoi accoliti. Tra questi anche alcune divise degli alti ufficiali. Tra cui ovviamente non figurava il boia.

Era comunque vero che, sebbene non firmata, la tenuta di rappresentanza del boia fosse parte integrante del suo ruolo: indossarla non era una questione sindacabile.

Ulmo e Cordo, infatti, non vi trovarono nulla da obiettare: frugando tra i vestiti trovarono qualche paia delle braghe di Steno, che più o meno portava la loro taglia.

Il salleziano, per quanto si sforzasse, era in difficoltà: non c’era un solo abito in cui riuscisse ad infilare più di un arto. Nonostante ciò non pareva preoccupato.

Karina, invece, era di tutt'altro umore.

Soltanto quando vide il viso della ragazza con in mano la divisa da boia, Florio ebbe chiaro il piano del Capitano.

«Tutto qui?» domandò Karina, stizzita.

«È la divisa» ribatté il Capitano. E per quanto si sforzasse non poté impedire a un sorriso di farsi largo.

«Non posso.»

«I tuoi colleghi lo stanno facendo.»

Ulmo e Cordo avevano infatti infilato la lercia calzamaglia nera, e il cappuccio altrettanto nero, che erano stati del precedente boia. Non avevano addosso altro, perché non c’era altro.

«Questa è discriminazione bella e buona!» protestò Karina, stringendo tra le mani un terzo esemplare della divisa.

«Senti, signorina, sono centinaia di anni che i boia si vestono così, avresti dovuto saperlo. Perché tu hai assistito a molte esecuzioni, vero?»

Florio non aveva mai giocato a carte con il Capitano, ma era certo che i suoi avversari vedessero quella faccia ogni volta che metteva sul tavolo una mano vincente.

«Certo…» tentennò la ragazza «Ma credevo che si potesse…»

«Non si può.»

Karina fissò nuovamente il cappuccio e i pantaloni: era difficile capire quale avesse più buchi.

«Forza, indossali, qui nessuno ti impedisce di farlo.»

«Anzi…» sogghignò Polporo, a voce neppure troppo bassa.

Karina strinse tra le mani quegli stracci e per un istante parve intenzionata a spogliarsi. Poi li scagliò a terra e uscì dalla stanza.

«Martinuzzo, accompagna fuori la signorina» ordinò il Capitano. Poi si rivolse al salleziano: «Anche tu ti rifiuti di indossarla?»

L’uomo stava guardando le braghe malamente accartocciate sul pavimento: «Sono piccole.»

«Abbiamo solo quelle.»

Florio si sentì un vigliacco: avrebbero potuto richiederne di una taglia adeguata in qualunque momento.

Ma Decalisto non si scompose: «Non importa, ho le mie.» Con un gesto si calò i pantaloni, sotto cui portava una calzamaglia nera, si tolse la casacca e infilò, un po’ a fatica, il cappuccio: era un’ombra di nero assoluto e puro terrore.

Boia chi resta

8. Tagliategli la testa!


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I tre candidati erano davanti a lui, nella divisa ufficiale, e non c’erano dubbi su quale fosse l’unica scelta logica da fare per l’uomo incaricato di selezionare il nuovo boia. Due di quelli non sarebbero apparsi minacciosi neppure con l’ascia in mano. Neppure con due asce in mano e un coltello stretto tra i denti. Nel dubbio ne fece consegnare una a testa.

Polporo, Martinuzzo e il Sergente eseguirono l’ordine porgendo un’arma d’ordinanza ai candidati.

Nelle mani del salleziano sembrava un taglierino.

Cordo e quell’altro probabilmente non sarebbero riusciti a sollevarla. E se anche con immenso sforzo ce l’avessero fatta, se la sarebbero tirata in testa.

Il Capitano Limes non avrebbe voluto essere l’uomo incaricato di selezionare il nuovo boia. Ma forse, con un po’ di fortuna, non sarebbe stato costretto a scegliere.

Aprì bocca per spiegare la nuova prova ma l’insolito tonfo di un’ascia che cade venne a interromperlo. Era scivolata di mano a quel tizio, quello che non era il cognato del Sergente.

Forse gli ci sarebbe voluto qualcosa più di un po’ di fortuna.

«Bene, signori» iniziò fingendo indifferenza all’incidente. «È giunto il momento di dimostrare che avete la stoffa del boia. Ora ci mostrerete cosa sapete fare con un’ascia in mano. Prendete confidenza con lo strumento mentre noi andiamo a preparare. Soldati, seguitemi.»

Si diresse con decisione verso il cortile interno, un quadrato di pochi metri dove l’erba nasceva già rinsecchita.

Il Sergente Florio lo raggiunse prima che potesse spiegarsi. Dalla sua faccia era chiaro, aveva già capito. «Capitano, mi sembra una follia…»

«Mi hai detto tu che a tuo cognato non frega di niente e nessuno, vedrai che ce la farà. Dopo aver familiarizzato con lo strumento.»

«Ma come ci aiuta? Il salleziano probabilmente ci è imparentato con lo strumento!»

Limes sfoggiò il sorriso di circostanza indossato quando voleva bluffare: «Guardalo bene negli occhi, quel negro è solo apparenza. Sotto sotto è un buono, uno smidollato. Non ce la farà.»

Il Sergente continuava a fissarlo con lo sguardo di chi conosce già tutte le risposte.

«Non è che abbiamo alternative, dobbiamo pur verificare che sappiano farlo» e senza attendere ulteriori obiezioni diede l’ordine agli appuntati.

A Florio non disse nulla, aveva già capito. Pochi minuti dopo, infatti, tornò con un bel ceppo, anche quello parte dell’attrezzatura d’ordinanza. Anche Polporo e Martinuzzo tornarono con materiale d’ordinanza: un bel condannato imbavagliato e legato come un salame.

Limes provò un certo piacere nello sbattere lui stesso Zuccasicci sul ceppo.

«Fate entrare Cordo.»

Il giovane cognato del Sergente entrò con passo indolente, trascinando con sé l’ascia come se fosse una fastidiosa appendice del suo corpo. Più lo guardava, più il Capitano si convinceva che sarebbe stata una buona scelta, ci sarebbe magari voluto un po’ di tempo, ma prima o poi sarebbe arrivato ai livelli del povero Steno.

«Bene, giovanotto, hai la divisa, hai l’arma e hai un condannato. Fai il tuo dovere.»

Era difficile capire cosa pensasse in quel momento, col cappuccio calato malamente sulla faccia, ma Limes intuì uno scambio di sguardi tra Cordo e il Sergente, e poi un altro con Zuccasicci. Il delinquente, sotto il bavaglio, stava ridendo.

«Quindi dovrei…» tentennò il giovane.

«Tagliargli la testa, sì.»

«Ah. D’accordo» e iniziò un’articolata manovra d’avvicinamento. Si sputò sulle mani, se le asciugò sulle braghe, afferrò l’ascia con una doppia presa alla base, ne soppesò la consistenza, se la portò una volta sopra la spalla, poi una seconda volta, poi fece due passi verso il condannato e si portò a tiro, poi si sputò ancora sulle mani e senza asciugarle prese l’ascia e la sollevò alta sopra la testa.

In tutto questo Zuccasicci continuò a ridere sotto il bavaglio. Continuò anche quando l’arma calò su di lui.

Il Capitanò Limes bloccò il colpo una spanna prima che la lama si conficcasse nella scapola del condannato. «Basta così, ragazzo, ottimo lavoro. Torna di là ora.»

Cordo fece quanto ordinato, senza mostra entusiasmo dietro quelle movenze flosce.

«Che ti dicevo? Tuo cognato è l’uomo giusto!» esultò rivolto al Sergente.

«Bisogna che perfezioni un pochetto la mira, però» ridacchiò Polporo.

«Nessuno ha chiesto il tuo parere. Ora va a chiamare il negro.»

Quando Decalisto fece il suo ingresso nel cortile, il cappuccio stretto in modo inquietante sul viso, i pettorali gonfi e lucidi di sudore, l’ascia ben salda nella mano destra, la voglia di fare battute passo a tutti, soprattutto a Zuccasicci che smise all’istante di ridere.

Vedendo lì, vicino al ceppo con il condannato, la mente di Limes fu attraversata da un lampo di lucidità: pareva nato per fare quel mestiere. Fu anche abbastanza in sé da pensare che forse non era lo smidollato che si stava illudendo fosse.

Ma era tardi per tornare indietro: «Forza, tagliagli la testa» ordinò.

Il salleziano tentennò, e Limes per un attimo riprese vigore.

«Tagliagliela, ti ho detto.»

«Qui? Ora?»

«Sì, qui. È l’ultima prova, dove pensavi di farla?»

Di nuovo Decalisto ebbe un’incertezza, sembrava stesse valutando la situazione, ma era difficile intuire i suoi pensieri sotto il cappuccio. Ma alla fine sentenziò: «Ho capito» e con un gesto rapidissimo calò l’ascia.

Limes sperava non succedesse ma al contempo sapeva benissimo che sarebbe accaduto: ma per quanto fosse pronto il suo braccio ebbe giusto il tempo di allontanarsi una spanna dal corpo. Anche fosse stato più veloce non avrebbe mai fermato la furia di quel colpo. Sarebbe stato complicato spiegare al Governatore perché avevano giustiziato il condannato durante un festino in gendarmeria.

Ma poi un odore fastidioso quanto inconfondibile venne a distoglierlo dai suoi timori: qualcuno se l’era fatta sotto.

Le braghe di Zuccasicci grondavano liquame marrone, mentre la testa era ancora al suo posto: l’ascia era piantata davanti al suo cranio, distante un dito o poco più.

«Era questo che intendeva, vero? Una prova.»

«Sì, bravo, esattamente questo» balbettò il Capitano. «Ora torna di là.»

Il gigante uscì tranquillo, come se invece di un’ascia avesse appena finito di maneggiare uno scaccia mosche.

Quando Decalisto fu fuori Limes s’abbandonò a un’imprecazione. «Beh, almeno è fatta. Portate via questo disgraziato, ma prima tirategli addosso un secchio d’acqua, che c’è già abbastanza puzza nelle celle.»

Tutti tentennarono e il Sergente gli rivolse un altro di quegli sguardi di rimprovero. «Ci sarebbe ancora… Ulmo» disse consultando il taccuino.

«Chi?»

«Nostro cugino, Capità» aggiunse Polporo.

«Vabbè, dai, vallo a prendere.»

L’appuntato aprì la porta giusto in tempo per sentire nuovamente l’insolito tonfo di un’ascia che cade.

«Ma lasciamo stare, Capità» aggiunse richiudendo la porta «Che noi ci vogliamo bene che è nostro parente, ma io e Martinuzzo c’abbiamo pensato, e il nostro voto lo avremmo dato comunque al gigante, il salleziano.»

Limes non parve sorpreso, ma del resto anche lui aveva già preso la sua decisione. «Bene, quindi: due mezzi punti degli appuntati al salleziano, e fa un voto. Dunque io sono l’ago della bilancia, e il mio punto e mezzo va a Cordo, che quindi è il nostro nuovo boia.»

Ci fu un silenzio, non lungo ma piuttosto eloquente.

Poi il Sergente parlò: «A dire il vero, Capitano, ci sarebbe anche il mio voto.»

Boia chi resta

Epilogo


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La piazza rigurgitava persone da ogni vicolo, e anche gli spalti sulle strade superiori erano gremiti tanto da rischiare un volo sulla folla sottostante. C’era spazio giusto per l’aria, ma neanche troppa perché quelli in mezzo respiravano a fatica.

Ma nessuno si lamentava, l’eccitazione per l’evento era troppa.

Sul piccolo pulpito era già tutto pronto: c’era il prelato, c’era l’ufficiale giudiziario e c’era il ceppo. Mancava il condannato ma entrò in quell’istante accompagnato da due ufficiali in una divisa tirata a lucido.

La folla s’infervorò come un cerino, iniziando a lanciare su Zuccasicci ogni tipo di improperio, oltre che di ortaggio. Il delinquente, il volto cinereo e scarno, pareva non sentirle e si lasciava trascinare docile curandosi solo di non incespicare nelle sue catene: se fosse finito faccia a terra sul selciato avrebbe perso l’ultimo briciolo di dignità che gli restava.

Le due guardie lo deposero davanti al ceppo e lasciarono campo all’ufficiale giudiziario che lesse la sentenza.

Morte, visto il grande assembramento, si avvicinò alla scena. Del resto era inutile farsi scrupoli di restare defilata.

«L’ha fatta proprio grossa! È per questo che lo odiano in tanti?» domandò una piccola figura incappucciata, apparsa inattesa al suo fianco.

«Non sono venuti per lui, sono qui per lo spettacolo» disse serafica Morte.

«Accipicchia, dev’essere emozionante avere tanti estimatori del proprio lavoro» commentò il Tristo Roditore. «Del mio quasi non se ne accorgono neanche i diretti interessati…»

«Ammazzarli non è il mio lavoro, lo sai bene. E comunque non sono qui neppure per me.»

«E per chi, allora?»

«Per lui.»

Il grande portone della guardia carceraria si spalancò e ne emerse una gigantesca ombra nera.

Il silenzio calò immediato e irreale. Il Tristo Roditore dovette riconoscerlo: era un’ombra più nera e gigantesca della Morte stessa.

L’uomo, se tale era davvero, s’incamminò verso il patibolo sfidando l’atmosfera surreale. Gli immensi muscoli delle braccia e dei pettorali erano tesi il minimo indispensabile per sostenere il peso di una grossa accetta, il cui manico superava il metro e mezzo di lunghezza. Il cappuccio gli cadeva floscio sul cranio e sulle spalle, nascondendo non solo le fattezze del viso, ma anche gli occhi, come risucchiati nell’oscurità.

I gradini del patibolo scricchiolarono sotto il suo peso, così come le assi di legno che componevano la pavimentazione.

Si portò al fianco del condannato e si posizionò a gambe divaricate, l’ascia puntellata tra i suoi piedi con la lama rivolta verso l’interno.

«Notevole» confermò il Tristo Roditore.

«Abbiamo fatto la scelta giusta» aggiunse una delle due guardie, quasi l’avesse sentito.

«Pare di sì…» disse l’altra, quella più sciupata ma dallo sguardo più fiero.

«Non è ancora convinto, Capitano? Ce l’ha così tanto con loro?»

«Tu sai perché i salleziani sono qui?»

«So che dopo averli schiavizzati per secoli e aver reso la loro terra un deserto arido e inospitale, abbiamo dato loro una nuova casa e una nuova dignità.»

«Ecco, forse se non gli avessimo portato via la casa non avrebbero avuto bisogno di una nuova dignità.»

«Ma non è certo colpa di Decalisto.»

«Ovvio che no.» Poi la guardia strinse le catene, così che la testa del condannato fu costretta contro il ceppo. E fece un cenno al boia.

Il gigante nero afferrò l’ascia con entrambe le mani. Morte fece lo stesso con la falce.

Il boia roteò il busto e sollevò l’arma sopra la testa. Morte assunse la postura.

L’ascia sibilò fendendo l’aria e chiaro alle orecchie di ognuno dei presenti venne prima lo schiocco molle della vertebra spezzata dalla lama e poi quello secco del legno scheggiato.

Per un secondo la testa rimase al suo posto e sul volto di Zuccasicci restò incollato un grigio stupore. Poi crollò giù, lasciando scoperta la lama rossa di sangue.

Un boato di tripudio scosse la piazza.

«Però, sembra nato per questo lavoro» commentò il Capitano.

«Già» aggiunse il Tristo Roditore. «La prossima volte che ti serve un sostituto dovresti chiamare lui.»

«Non fare lo spiritoso, non ti s’addice» commentò Morte. Poi si volse verso il nuovo arrivato: «Shimon Zuccasicci, seguimi, ti condurrò per l’ultimo tratto.»

Il delinquente la guardò quasi con sollievo: «Sì, ti prego, portami via, non voglio più avere a che fare con quel mostro.»

Morte lo condusse con piacere nella luce ultraterrena.

Il Tristo Roditore la salutò e si avviò verso un vicolo buio dove l’attendeva un vecchio ratto. Prima però volse un ultimo sguardo verso il patibolo: il boia di Firmiona stava riponendo con attenzione i resti del condannato su una lettiga, per poi condurli nel loro ultimo viaggio.

«Sì, un sostituto perfetto» disse prima di sparire nel buio.



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