Bana e le carte magiche

Prologo


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Si accese una sigaretta e la strinse tra i denti. Era tabacco della Val Galimino, coltivato nelle piantagioni di Beliaz l’allampanato, della migliore qualità.

Peccato non poterne assaporare l’aroma.

Nel lungo corridoio, illuminato da un sole fatto a strisce da grate arrugginite, le spire di fumo s’avvolgevano diafane al pulviscolo centenario. Lavorare nei templi abbandonati o nelle rovine di antiche magioni era di una noia mortale. Presto, infatti, il copione fatto di stupidi avventurieri alla ricerca di vacui tesori si sarebbe ripetuto uguale ad altre centinaia di volte. Ma il suo compito non era certo porre un freno all’inesorabile susseguirsi del fato.

Voci giunsero in lontananza. Finalmente.

Gettò la sigaretta, che scomparve tra la polvere prima di toccare il suolo, sollevò il cappuccio e afferrò la falce. Sarebbe stato un lavoro facile e pulito.

«…mio padre ancora se lo chiede. Da quel giorno tutti mi chiamano Manolenza.» Seguì una risata sguaiata che si riverberò tra le pareti decrepite. «Hai capito? Mano-lesta, mano-lenza… perché con la canna da pesca… vabbè, lascia stare.»

Dietro un angolo buio fece capolino la testa fulva proprietaria della fastidiosa voce: «Via libera» disse al suo interlocutore ancora nascosto.

Un istante dopo il giovane dalla lingua lunga entrò nel corridoio, seguito da un vecchio incartapecorito.

«Che ti dicevo, Leuterio? Con Jonas Manolenza vai sul sicuro, non c’è trappola che mi ferisca o serratura che mi resista» si pavoneggiò il ragazzo, proseguendo baldanzoso per il varco, avvolto dalle nuvole di sabbia che i suoi stessi passi sollevavano.

Il fossile che lo accompagnava, infagottato in un pastrano tarlato memore di giorni migliori, lo seguiva a debita distanza.

«Dentro cosa dovrebbe stare questo tuo mazzo magico?»

L’anziano scosse la testa: «Chiudi la bocca e apri gli occhi Jonas, questa era la dimora di Malachia l’Ombroso, il più grande incantatore dei Tempi Remoti.»

«E allora? Sono passati millenni, qui è tutto in rovina. Troverò il tuo tesoro in un baleno e…»

Un click interruppe il fiume di parole. L’avventuriero sbiancò, il vecchio indietreggiò.

Lei strinse la falce e assunse la postura: il momento era giunto.

Uno sciame di frecce scricchiolò attraversando lo stretto passaggio: nove si sgretolarono contro la parete, otto trafissero il corpo di Manolenza che cadde a piombo.

Il tempo di un sospiro e lo spirito del giovane le apparve davanti, gli occhi eterei di lui piantati nelle sue orbite vuote.

«Tu… tu sei…» balbettò.

Morte si limitò ad annuire.

«Quindi… io sono…»

Morte allungò un dito scheletrico verso il cadavere disteso nella sabbia.

Seguì un silenzio rotto dai brontolii del vecchio: «Stupido incapace» bofonchiò scavalcando il corpo. Poi disegnò un cerchio nell’aria e sulla mano gli comparve una sfera luminosa, con l’aiuto della quale svoltò in un tetro passaggio.

«Ora non dovresti condurmi…»

Morte si portò il dito davanti ai denti e gli fece cenno d’aspettare, quindi indicò il cunicolo in cui s’era infilato il vecchio.

«Viene anche Leuterio?»

Rispose un rombo, come se la terra avesse digerito un intero banchetto di nozze. Poi si alzò un’onda di polvere e infine il buco dove s’era infilato l’arzillo nonnetto lo risputò fuori.

L’uomo rotolò in un rumore di ossa rotte. Si voltò verso il passaggio che ancora ruggiva, cercò di alzarsi e il suo volto si trasfigurò per il terrore quando le gambe non ubbidirono. Guardò nuovamente l’imboccatura del cunicolo e volgendo gli occhi al cielo pronunciò flebili parole.

Poi la terra vomitò un macigno che, nella sua corsa verso l’uscita, gli rotolò sulla testa. Del corpo di Leuterio rimase solo una scia di sangue e interiora.

Morte si preparò ad accogliere il nuovo venuto.

Alla sua destra però comparve lo scheletro di un topo avvolto in una mantella nera, con una piccola falce chiusa nella zampa.

«Odio gli straordinari!» si lamentò il collega mentre al suo fianco prese forma lo spirito di un confuso roditore.

«E io odio gli stregoni» sospirò Morte guardando un topo sgattaiolare fuori dalle rovine a tutta velocità.

Bana e le carte magiche

1. La ballata di Bana


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L’oste mi squadrò dall’alto, l’enorme pancia a un baffo dal mio naso.

– Un’altra pinta! – ordinai mostrando il boccale vuoto.

– Tre baiocchi d’argento – protestò lui allungando la mano.

Gettai una rapida occhiata in giro. La sala comune era gremita: una ventina di persone stavano gozzovigliando, tra cui spiccavano un paio di mercanti, un boscaiolo, tre spaccapietre e due soldati a fine turno. Era il momento migliore per tentare la sorte.

– Lasciami fare e ne avrai sei – dissi estraendo il flauto.

– Sapevo ch’eri un balordo!

– Lascialo, Golvio, – intervenne il boscaiolo, fortunatamente lontano dal farsi i fatti suoi – è da molto che non sento un bardo.

– E un altro tale non sentirete per altrettanto – esclamai saltando sul tavolo. – E neppure una novella di pari levatura. – Suonai un breve stornello e l’attenzione fu mia. Un inchino, un sorriso e iniziai il canto:

Codesta storia è di Bana
Che di mestier levava pene
Lo facea alzando la sottana

– Ehi, racconta senza ammorbarci con le canzonette – protestò una guardia, subito spalleggiata dalle risa degli astanti.

– Ma così vi perderete una delle migliori rime alternate nella storia della poesia epica!

– Correremo il rischio – confermò quello per tutti.

– E prosa sia, allora…

 

Molte professioniste dicono d’aver intrapreso il mestiere forzate dal destino. Certo Bana avrebbe potuto fare lo stesso, perché la nonna con cui era cresciuta aveva intrapreso l’antica professione a tredici anni. Oppure poiché ignorava chi fosse sua madre e l’assioma era inevitabile. O ancora perché il padre l’aveva venduta bambina a un cacciatore di taglie, senza neppure salvarsi, così, la pelle.

Ma la verità era che a Hipaloma solo il Connestabile guadagnava più di una brava meretrice. E Bana era più che brava, era la migliore. Così, durante una carriera lunga venti primavere, non era stata l’esperienza l’unica cosa che aveva accumulato.

Il Massaggio d’Oriente era diretto da Callisto solo per mera apparenza: se gli uomini avessero saputo che il bordello apparteneva a una delle ragazze la clientela si sarebbe dileguata.

Ma a Bana andava bene così: lavorava, guadagnava e spendeva i suoi soldi. Non poteva desiderare nulla di più.

O almeno così aveva creduto fino a quel dì.

Nulla lasciava presagire per quella giornata un karma diverso. Bana era impegnata con un lavoretto nuovo, un mercenario truce così martoriato di cicatrici che pareva una carta geografica. Tutto stava andando liscio e le sarebbero bastati ancora pochi gemiti per guadagnarsi i suoi tre baiocchi d’oro.

Ma un urlo di terrore spezzò l’atmosfera erotica del Massaggio d’Oriente.

Bana lasciò il mercenario solo a trastullarsi e si precipitò al piano di sotto. Nessuno poteva permettersi di fare del male alle sue ragazze.

Aprì la porta con veemenza: Melina, in piedi sul letto come mamma l’aveva stupendamente fatta, sbraitava come un’indemoniata.

«Porco, esci immediatamente!» intimò Bana all’uomo infagottato tra le lenzuola, di cui intravedeva i lunghi piedi tremanti. «Fuori!»

Fece un passo intimidatorio e da sotto il letto schizzò fuori una palla di pelo.

«Il topooo!» strillò isterica Melina.

Bana non si fece intimorire: afferrò la scopa più vicina e inseguì il roditore per tutti i corridoi del bordello.

Una, due, tre e quattro ramazzate.

L’animale stava attaccato alla vita più d’un prete ai baiocchi della questua: con una corsa zoppa ma veloce salì le scale mentre Bana restava indietro sempre un gradino di troppo.

Lo avrebbe anche lasciato vivere, non era per gli animali che conservava il suo odio, ma il topo fece un errore: entrò nella sua stanza.

E quando lo vide sul suo comò, ritto sulle zampe posteriori a fissarla con sguardo di sfida, la rabbia si fece furia.

Avanzò brandendo la scopa con violenza e, quando fu lì lì per colpire, le zampe anteriori del roditore si alzarono come in segno di resa, o in supplichevole richiesta di un ultimo istante.

Lei esitò e il topo ne approfittò per intingere le zampe nell’impasto di minio per le labbra. Poi scrisse sullo specchio. Sì, scrisse. E per un tempo molto lungo, considerando la sua natura di roditore.

Bana lo guardò allibita: «Bel tentativo amico, ma io non so leggere» esclamò caricando il colpo.

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2. Donne e topi


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La scopa stava per abbattersi inesorabile, noncurante della devastazione che avrebbe portato. Ma una forza, piuttosto debole a dir la verità, venne a frenarne l’azione distruttiva.

Bana si voltò verso il proprietario della mano che l’aveva fermata e lui, un ometto dal viso schiacciato ai bordi e il naso adunco, non le prestò la minima attenzione. Si sporse invece, trascinando i lunghi piedi e il lenzuolo nel quale era avvolto, verso lo specchio e le scritte vermiglie.

La padrona di casa scambiò uno sguardo interrogativo con Melina, che dalla porta assisteva alla scena: il terrore, in lei, era stato vinto da una curiosità prettamente femminile. La giovane meretrice diede un’alzata di spalle.

«Padre Teomondo, posso chiederle d’uscire dalla mia stanza e tornare a godere del tempo che ha pagato?»

«Solo un momento Banaclea, solo un momento» rispose quello tenendo la faccia a un palmo dallo specchio. Poi prese a leggere: «Gentile signora, se gli risparmierete la vita, codesto roditore, che sarei io, vi ringrazierà rivelandovi un ricco segreto.»

Bana guardò il religioso, poi guardò Melina, poi guardò il mercenario che ancora stava nel suo letto, infine guardò il topo. L’animale ricambiò il suo sguardo e lei ebbe la netta sensazione che quegli occhi fossero i più intelligenti presenti nella sala.

«Pare interessante» commentò Melina con una risatina acida.

«Sicuramente prodigioso» sottolineò padre Teomondo.

Bana storse la bocca e strinse la scopa: «Io sono già ricca. Ho la saccoccia colma, la pancia piena e nel mio letto c’è sempre un uomo. Cosa posso volere di più?»

Il topo sembrò spazientito: con le mani grondanti minio cominciò a battere una zampa posteriore sul comò.

«Credo voglia ribattere» suggerì il mercenario.

Bana sbuffò, prese uno straccio e pulì lo specchio. Il topo tornò a scrivere e il prete a leggere.

«Non solo denaro ti aspetta, ma anche potere, giovinezza, vita eterna, se sarai scaltra e fortunata.»

«Sempre più interessante» ridacchiò Melina.

Bana non era mai stata una persona ingorda: s’era fatta da sola e godeva di ciò che aveva. Ma il pensiero d’essere una gran dama servita e riverita, oppure di tornare snella come venti primavere prima, l’aveva talvolta accarezzata, mentre il sonno le correva incontro.

Molti ciarlatani avevano già cercato di pagarla con chimere di ricchezza ma lei non vi aveva mai creduto. Quel dì però un seme diverso s’era impiantato nella sua mente, e non perché a proporle l’affare fosse un ratto. «Sì, interessante. Motivo per cui ora voi uscirete dalla mia stanza e mi lascerete sola col signor topo» intimò ai presenti.

Tutti tentennarono ma nessuno ebbe il coraggio di contraddirla.

Si avvicinò all’animale e disse: «Padre Teomondo, lei resta.»

Cominciò così un surreale dialogo dove un topo parlava per voce d’un prelato.

«Chi sei? Come conosci questo segreto?»

«Tu mi vedi topo ma io sono Leuterio, l’ultimo stregone ombroso. Solo io conosco il luogo dove il nostro fondatore e maestro, Malachia, nascose il suo più grande manufatto: il Mazzo delle Meraviglie!»

«Un mazzo di carte? E che ci faccio con delle carte!»

«Cose stupefacenti potrai fare anche con una sola di esse. Ogni carta racchiude le grandi magie create da Malachia e possiede poteri magnifici. Se mi aiuterai a recuperare il Mazzo potrai avere due carte.»

«Due? Facciamo tre! Cavolo, si fa sempre tre, perché tu dovresti fare due?»

«Vada per tre…»

 

– Ehi, bardo, non ti pare d’averla presa larga? Ho una moglie che mi aspetta, io! – protestò un soldato.

– Che dovrei fare, un sunto? Sono un bardo, non un maestro di scuola!

Un coro di voci confuse s’alzò a difendermi o accusarmi.

– Sì sì, ma almeno salta le parti noiose – disse qualcuno.

– Vogliamo l’azione, il sesso – propose qualcun altro.

– Lasciatelo raccontare – intervenne un’altra voce.

– Va bene, tagliamo i dettagli. Fu così che il roditore la convinse e Bana accettò d’accompagnarlo. Su suggerimento del topo però non partirono soli, Bana prese con sé tre compagni di viaggio…

Bana e le carte magiche

3. La compagnia del bordello


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«Ti prego, fammelo vedere ancora» squittì Melina sbattendo le ciglia.

Il mercenario non cambiò espressione: si slacciò il bottone, arrotolò la manica e irrigidì il bicipite fino a che non fu grosso quanto un melone.

«Per gli Dei, sei davvero fortissimo Venusio» ridacchiò sorniona toccandogli il muscolo e stringendosi ancora di più a lui.

«Certo! Ma ora torna sul carro, bambina.»

«Ma io voglio stare qui con te» gli sussurrò all’orecchio.

Venusio restò imperturbabile: «Avrai modo,» disse facendola scendere da cavallo, «io adesso devo avere le mani libere per combattere e difendervi.»

«Difenderci da cosa? Quel vecchio rudere è a poche leghe da qui, saremo arrivati prima che cali il sole, cosa vuoi che ci succeda?»

«Smettila di lamentarti Melina e sali sul carro!» la rimproverò Bana, poi tornò a rivolgersi al topo: «Perché diavolo hai voluto che li portassimo con noi? Potevo accompagnarti anche da sola fino alle rovine del malocchio.»

Il topo allungò una zampa spaziando con un ampio gesto sugli altri tre, poi se la portò agli occhi e infine indicò se stesso.

«D’accordo, t’hanno visto, e allora? Solo il prete sa delle carte, potevamo portare solo lui!» bisbigliò.

Il topo Leuterio si batté il petto come per dire che sapeva il fatto suo.

Si erano lasciati alle spalle le mura di Hipaloma ormai da qualche miglio e contavano di tornare la mattina successiva. Per questo erano partiti con il carretto che Bana usava per fare provviste al mercato, su cui avevano caricato il necessario per una notte all’addiaccio: legna, coperte, una caciotta, della carne affumicata e l’altarino di Padre Teomondo. Il mercenario le aveva detto di non preoccuparsi per il cibo, avrebbe cacciato lui, ma aveva comunque preferito non dargli troppo credito. Era una sua regola: mai fidarsi dei clienti.

Da quella mattina però stava pensando di aggiornarla: mai fidarsi dei clienti, e dei topi.

«Come ho potuto ridurmi così? Accettare consigli da un ratto!»

«Leuterio ha ragione,» intervenne Teomondo lasciando le briglie in mano a Melina, «le rovine del malocchio sono un luogo pericoloso.»

«Pensavo che i preti non fossero superstiziosi» commentò divertita la ragazza, prendendo le redini.

«Se è per questo, praticano anche l’astinenza» rincarò la dose Bana.

«Stolte! Quelle mura racchiudono una grande energia arcana, non sottovalutatele» si difese il prelato.

«Se sono così temibili, perché ci accompagni?» chiese la giovane prostituta.

Bana fulminò il prete con lo sguardo.

«Non… non dico che è pericoloso…» balbettò lui «però le braccia di Venusio ci faranno comodo, ecco.»

«Tu sai qualcosa che mi nascondi» gli disse Bana prendendolo per la collottola e portandone l’orecchio all’altezza della sua bocca.

Teomondo si guardò attorno circospetto, poi si avvicinò a Bana in modo molto intimo: «Malachia l’Ombroso è stato il più grande stregone dei tempi antichi. Qualcuno crede sia il padre di tutta la magia esistente in Eudopia e che tutti gli artefatti magici oggi in circolazione siano stati creati da lui. Pare che la sua intelligenza fosse eguagliata solo dalla sua perfidia e che persino l’Imperatore tremasse al suo cospetto.»

Il topo Leuterio, infilatosi tra il seno di Bana e la mano del prete, annuì il suo consenso.

«L’Età Imperiale è finita mille anni fa, che pericolo può esserci?»

«Tu non capisci, donna: la magia non conosce tempo. Il premio sarà grande, ma anche i nemici che potrebbero attenderci.»

«Attenzione!»

Al grido del mercenario Melina, spaventata, strattonò le redini facendo impennare il povero ronzino e sbandare il carro. Padre Teomondo strinse il medaglione sacro e cominciò a pregare affinché i nemici lo risparmiassero.

«Che diavolo succede?» chiese Bana all’uomo, fermo sul suo destriero con la spada puntata al suolo.

«Non ho mai visto una merda di cavallo così grande: doveva essere un animale gigantesco, o troppo goloso di crusca!» rise di gusto Venusio. «Fai attenzione Melina, se ci passi sopra con le ruote ci resterà attaccata per settimane.»

Bana e le carte magiche

4. L’uomo che sussurrava ai centauri


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Il mercenario si fermò e puntò ancora la spada a terra: «Eccone un’altra! Cos’ha mangiato questo animale? Caga più merda lui che preghiere il prete…»

«Visto il prete non mi sorprendo» ridacchiò a denti stretti Melina, il viso nascosto nei capelli di Bana.

«Lascia perdere il letame! Ti pago per cose più importanti» disse l’esperta prostituta rivolta a Venusio.

«Anche questo è importante: le tracce vanno nella nostra direzione» ribatté lui avvicinandosi. «È un cavaliere, piuttosto pesante direi, forse ben armato.»

Leuterio, accucciato sulla spalla di Bana, cominciò a gesticolare attirando l’attenzione. Melina lo prese tra le mani: «Che c’è, piccoletto?»

Il topo si sbracciò mostrando un musetto serio. «Credo voglia dirci che tagliando per le colline forse lo eviteremo» commentò Padre Teomondo.

«Ci avevo pensato anch’io» proseguì Venusio. «Ma la strada si farà meno agevole, dovremo abbandonare il carro.»

«Per quanto?» chiese Bana.

«Le ultime sei miglia.»

Le donne si guardarono: «Quanto è grosso questo cavaliere?»

«Lascia impronte più profonde delle mie di almeno tre dita» concluse il mercenario.

Due ore dopo si stavano inerpicando su una collina brulla, costeggiando un bosco ormai buio dietro cui il sole stava morendo. Melina, affannata e sudata, non riusciva più a reggere il passo e Padre Teomondo resisteva ancora con la forza della fede, convogliata in lui dal fondoschiena di Bana oscillante davanti ai suoi occhi.

Venusio si voltò: «Rimanete qui, salgo e studio la situazione. Da lassù dovrei vedere le rovine del malocchio.»

Con movimenti rapidi, arco in spalla e spada al fianco, il mercenario raggiunse la vetta del colle. E altrettanto rapidamente discese: «Diavolo, questo dovete vederlo!»

Molti istanti dopo quattro teste, anzi cinque contando anche i topi, facevano capolino tra le rocce muschiose, intente ad ammirare la creatura che stava riposando giusto di fronte all’antica dimora di Malachia: da dietro pareva un poderoso stallone nero, lucido di sudore, ma là dove avrebbe dovuto essere la testa c’era una metà d’uomo, dal volto rubicondo e l’addome prominente.

«Un centauro…» sussurrò ammirato il prete.

«Un grosso e grasso centauro» confermò Venusio.

«Dite che è un problema?» chiese Bana.

«Le creature leggendarie sono sempre un problema» assicurò il guerriero. «Sono forti, hanno capacità magiche e adorano dare il tormento agli esseri umani. Non ci lascerà passare senza qualcosa in cambio, anche solo per il gusto d’infastidirci.»

«Mandiamo avanti la ragazza, lei saprà come fare» suggerì Padre Teomondo.

«Smettila!» protestò Bana.

«Sei scemo? Che ci faccio io con quello?» rincarò Melina.

Venusio strisciò al suo fianco: «Bambina, quella che vedi lì dietro non è la coda.»

«Oh.»

«Non diciamolo neanche per scherzo, piuttosto andiamo là tutti e trattiamo, in fondo cosa può esserci d’interessante per un centauro…» Ma Leuterio la interruppe cominciando ad agitarsi. Le smorfie del suo muso mostravano chiaramente quanto potesse interessare al centauro il tesoro di Malachia.

«Ci penso io» concluse Venusio imbracciando l’arco.

«Aspetta, potrebbe essere pericoloso» protestò Bana.

«Mi paghi per questo, no?» e così dicendo le diede un bacio e s’inoltrò nella foresta.

«Ma dove… il centauro è dall’altra parte!» gridò Bana.

«Maledetto vigliacco! Me ne occupo io!» dichiarò Melina, con una strana luce negli occhi.

«Nessuno se ne occupa» la fermò Bana. «Stiamo qui e aspettiamo, se ne andrà prima o poi.»

Ma ben prima che il centauro alzasse il possente didietro, Venusio tornò con un grosso cinghiale sulle spalle.

«Potevi dirlo che andavi a procurare la cena» gongolò il prete con l’acquolina in bocca.

«Non è per te!» sbuffò Venusio. «Avete visto quanto caga e che pancia si ritrova quel mostro? Di certo è un buongustaio. Andrò a offrirgli questo cinghiale e intanto che lo distraggo con il cibo voi entrerete nelle rovine.»

«E se non ci casca?» chiese Bana preoccupata.

«Ho sempre la mia spada» rispose lui sorridendo. Poi si diresse fischiettando verso il centauro.

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5. Attraverso lo specchio


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«Bastardo d’un bipede, questo cinghiale è strepitoso» ringhiò il centauro azzannandone ancora.

«Una ricetta del mio vecchio» rispose Venusio strizzando un occhio come per un tic.

Padre Teomondo, infrattato in un rovo spinoso, colse il segnale e dopo aver ringraziato Abàtar per il comodo nascondiglio, strisciò fino alle compagne. Un cenno della testa bastò al topo per lanciarsi a fare da apripista.

Un occhio vigile a fatica avrebbe visto le tre figure che, il sedere teso al cielo, scivolavano nelle ombre del crepuscolo mangiando polvere. Un orecchio fino forse avrebbe udito le maledizioni di Melina per il vestito rovinato sulle rocce, ma la sorte volle che nessuno tanto abile fosse nei paraggi.

 

– Ehi, bardo, racconterai anche come il prete s’è calato le braghe per pisciare?

Risa sguaiate accolsero il commento dello spaccapietre. Sentii un prurito alle mani ma contai fino a dieci: era ancora presto. Sorrisi e feci un inchino: – Perdonate messere, avevo promesso azione. Così sia, dunque…

 

Il lungo corridoio appariva ancora più spettrale illuminato dall’altarino del prete.

«Potevamo portare una torcia» protestò Melina.

Bana grugnì colpevolmente: «Non vado per rovine tutti i giorni, non c’ho pensato…»

«Inutile recriminare, zitte e andiamo» bisbigliò Teomondo ansioso di raggiungere Leuterio, di cui si scorgeva a malapena la coda.

Il prete allungò il passo ma un click venne a spezzare il silenzio e gelare i movimenti. Gracchiarono meccanismi arrugginiti, poi un sibilo soffocato.

Due, tre sibili.

Un urlo: «Dio che ddoloreee!»

Melina cadde a terra, le mani sul didietro «Oddio muoiooo!»

«Non nominare Abàtar invano» le intimò Teomondo avvicinandosi.

«Lo stramaledico» bestemmiò la giovane, «lui e la freccia che ha lasciato si piantasse nel mio culo!»

Alla notizia il prete si fece prodigo di attenzioni e portò le prime cure alla ferita: «Non è grave ma devo medicarti o peggiorerai.»

«Fai quello che devi» intimò Bana, poi si volse a cercare il topo. Leuterio apparve al limitare del fascio di luce: si stava sbracciando, con quelle corte zampette, perché lo seguisse. Bana prese una delle due candele, si raccomandò ancora e raggiunse il roditore.

L’alone luminoso copriva una circonferenza di tre metri scarsi, più che sufficienti a illuminare il cadavere steso come un puntaspilli poco avanti nel corridoio. Leuterio non le diede il tempo di badarci; correndo come un indemoniato, s’infilò in una grata a sinistra lasciandosi un buio cunicolo a destra.

Bana dovette scardinarla ma la ruggine facilitò il lavoro. Un po’ meno semplice fu far passare il suo sedere in quel buco. L’accolse una fogna maleodorante che sfociava in un tunnel grondante liquame popolato da una colonia di ratti.

Appena i suoi piedi s’immersero nella brodaglia, i grossi roditori voltarono all’unisono le teste: un numero impronunciabile di occhietti rossi la fissò per un lasso di tempo infinitamente lungo, durante il quale Bana ebbe modo di ripensare alla sua vita, così come si fa in punto di morte.

Ebbe anche il tempo di ipotizzare che Leuterio l’avesse attratta lì con l’unico scopo di darla in pasto ai suoi simili. Ma quando i ratti si voltarono dall’altra parte e si aprirono in due ali ordinate per farla passare, ricacciò i pensieri malevoli.

Leuterio l’attendeva all’altro capo dello strano corteo e l’accolse con un gesto di rimprovero per la lungaggine. Poi, con fare minaccioso, mostrò gli incisivi agli altri topi, che si dileguarono.

Bana non osò commentare e seguì la sua guida fino a uno spoglio e lugubre salone, avvolto nel bagliore viola di fiamme perenni, nella cui desolazione spiccavano uno specchio lurido e, davanti ad esso, un leggio di pietra su cui il topo si arrampicò.

Le fu subito chiaro cosa volesse mostrarle: il leggio che si intravedeva riflesso nello specchio reggeva un mazzo di carte che nella stanza non c’era.

«Quindi, che faccio? Dico una frase magica? Per tutti i Cédar, non so leggere, te l’avevo anche detto…»

«Per quello ci sono io.» La voce di Teomondo echeggiò nel tombino, dal quale poco dopo uscì la sua magra figura. «Tranquilla, Melina sta be… benino.»

«Non avresti dovuto…»

«Abbiamo un patto» la interruppe con sguardo bramoso. «E poi senza di me non puoi fare nulla.» Teomondo s’avvicinò al leggio e lo studiò per diversi minuti.

Anche Bana studiò il prelato che pareva muoversi con estrema disinvoltura in quella situazione. Poco dopo, infatti, pronunciò frasi incomprensibili e alcune parole apparvero sulla pietra, come incise da un invisibile scalpello.

Il topo, in equilibrio sul bordo, si sfregò le zampe, mentre il prete leggeva l’incisione ad alta voce.

L’arcano rito produsse una vibrazione nell’aria che persino Bana percepì. La sporcizia cadde dallo specchio come un velo, scoprendo le impronte di due mani impresse nel vetro.

Bana si avvicinò inquieta ma curiosa: era una lavorazione di fattura incredibile, come se il calco di due mani destre fosse stato lasciato nello specchio quando era ancora vetro fuso.

«Posa il palmo qui» le disse Teomondo affiancandola con un sorriso forzatamente rassicurante, compiendo lui stesso il gesto sull’altra impronta. Bana non aveva compreso il motivo, ma obbedì. E un capogiro la investì.

Quando si riebbe la stanza era diventata molto più piccola, il pavimento era un mucchio d’ossa e Teomondo al suo fianco fissava impietrito lo specchio: ora sul leggio dall’altra parte, oltre alle carte, c’era un topo che ballava entusiasta.

Bana e le carte magiche

6. In fuga col mazzo


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Pareti umide di muffa, aria densa come una scorreggia di vacca, una sola luce proveniente dalla stanza oltre lo specchio, quella dove si trovavano fino a pochi istanti prima. «Che diavolo è successo?» chiese al prete.

L’uomo abbassò la testa e si lasciò cadere tra le ossa. «Malachia era diabolico. Per difendere le carte ha escogitato una trappola micidiale: chiavi umane per aprire la porta.»

«Sì, ma perché siamo intrappolati qui?»

«Ho solo seguito le istruzioni magiche» piagnucolò, «abbiamo appoggiato le mani sullo specchio e ci siamo scambiati di posto con le carte» e indicò il mazzo nel quale il topo stava sguazzando più d’un maiale nel letame.

«E come usciamo?»

«Come i nostri predecessori» sentenziò sollevando un teschio.

Allora Bana capì. Il cuore fece una pausa, valutando se valesse la pena battere ancora, il respiro si fermò, con un nodo di disperazione incastrato in gola, gli occhi pieni di lacrime annebbiarono l’immagine della libidinosa danza del ratto. Quindi fece ciò che ogni donna saggia fa in situazioni disperate: urlò.

Smise solo quando vide il topo cadere stecchito giù dal piedistallo.

«Sono stata io?» chiese incredula.

«N…non credo…» balbettò il prete. «Ha strappato una carta e poi…»

«Forse era quella sbagliata!»

Teomondo alzò le spalle. Ormai aveva poca importanza: gli altri ignoravano dove fossero e la fine del topo peggiorava solo la situazione. Nessuno avrebbe mai più fatto capolino da quel buco.

Ma poco dopo la sorte parve arrivare in loro aiuto nelle sembianze d’un ciuffo di capelli rossi. Ne seguì però un corpo il cui aspetto malsano smontò il loro entusiasmo.

«Chi è questo? È più morto che vivo!» sospirò Bana.

«Quel cadavere pieno di frecce che era nel corridoio. Leuterio ha cambiato ancora corpo» dichiarò affranto il prelato.

«Che schifo! Certo però che ne capisci di magia…»

Ma padre Teomondo non l’ascoltava, concentrato sui movimenti del nuovo Leuterio. Il morto vivente stava frugando, con la stessa foga del topo ma peggiore manualità, tra le carte del mazzo. Quando scovò l’effetto magico che cercava, un sorriso attraversò quel viso marcio, letteralmente da orecchio a orecchio.

La carta fu strappata e un bagliore avvolse il corpo animato, spazzando via come un alito di vento polvere e tarocchi.

Quando il lampo magico si disperse, la nuova custodia di Leuterio riapparve rosea di vita, mentre la cera di padre Teomondo s’era fatta terrea.

«Che c’è?»

«Se avessimo quella carta…» sussurrò l’uomo, lo sguardo fisso s’una carta raffigurante due città sovrapposte, che era volata sin contro lo specchio.

«Sai cosa fa? Ma come…»

«Non ha importanza, ormai.»

Bana sbuffò, sciolse i capelli e armeggiò con il fermaglio. «Prete, hai mai cacciato ragni?» chiese mettendosi faccia a terra. «Spingi forte un bastoncino nel buco dove sta il nido…» e lo stesso fece con il pezzo di metallo nello spiffero sotto lo specchio.

«Sbrigati, le sta raccogliendo!» gridò il prete redivivo.

Bana, tenendo un occhio sul ferro, alzò l’altro verso lo stregone: frettolosamente stava rimettendo insieme il mazzo. Lei diede un abile colpo di polso, arpionò la carta con la punta del fermaglio e cominciò a trascinarla a sé.

Per un istante lo sguardo del mago fu in quello della prostituta, quindi lui si tuffò sull’ultimo arcano proprio mentre stava scomparendo al di là dello specchio. Troppo tardi: ormai era in mano a Teomondo.

Leuterio capì immediatamente e scappò a gambe levate.

«Stringiti a me» gridò il prete.

Bana non osò obiettare e ubbidì. Un attimo dopo erano in una fogna maleodorante echeggiante di passi.

«È lui, inseguiamolo!» scattò con incredibile agilità il prete.

Lei lo imitò, corse disorientata senza rendersi conto di ricoprire al contrario il tragitto che l’aveva portata alle carte. Il nuovo corpo di Leuterio, però, era giovane e scattante, stargli dietro era impossibile.

Tutto sembrava perduto, ma un urlo e un tonfo ribaltarono la situazione.

Quando Bana raggiunse Leuterio, lui era disteso a terra, le carte sparpagliate nella polvere e Melina si tastava dolorante il sedere, lo strumento che aveva posto fine alla fuga del mago.

Bana e le carte magiche

7. Quattro sprovveduti e un fuggitivo


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Leuterio alzò la testa e una spada gli apparve a un pelo dal naso.

«Chi è questo rospo?» chiese Venusio, la voce echeggiante per il corridoio.

Bana s’aggiustò gonna e capelli, prese fiato e rispose: «Leuterio.»

A quel nome lui abbassò d’istinto la lama: «Ma non era un topo?»

«Era…» intervenne Padre Teomondo, afferrando per la collottola il nuovo corpo del vecchio stregone, già intento a raccattare le carte magiche. «Melina, prendile tu.»

«Mi fa male il sedere» protestò la giovane prostituta.

Bana sospirò e raccolse i tarocchi. «Ci hai ingannato sin dall’inizio!» attaccò poi.

«Tu sapevi delle frecce!» l’accusò Melina.

«E conoscevi la trappola dello specchio» rincarò il prete.

«Non hai niente da dire?» chiese Venusio risollevando l’arma.

Leuterio restò fieramente immobile al centro del cerchio inquisitore: «Era il primo insegnamento di Malachia: o sodomizzi, o sei il sodomizzato. Dopo uccideva in modo orribile i discepoli più sprovveduti, generalmente la maggioranza.»

«Credi di farci paura, vero?» attaccò Teomondo, celando nella voce una risposta affermativa alla sua stessa domanda.

«Sì» confermò laconico il mago.

Bana guardò quegli occhi antichi chiusi nel giovane corpo e venne attraversata da un brivido. Strinse il mazzo tra le mani come per farsi forza.

«Voi non vi rendete minimamente conto. Le mie dita hanno toccato la fiamma della fenice, le mie orecchie hanno ascoltato il pianto delle banshee, le mie…» Ma un guanto borchiato contenente un grosso pugno si schiantò sulla mascella di Leuterio, deformando parole e volto.

«Chiudi la bocca, rospo» concluse il discorso Venusio. «E tu, donna, distribuisci le carte.»

Sul viso di Bana si disegnò una ruga contrariata: «Un momento, perché dovrei darti le carte? Tu sei già stato pagato per questo lavoro.»

«Ti ridarò i soldi.»

«Per tutti i diavoli di Babuz, quelli basteranno sì e no per una!» protestò lei.

«Quindi? Le altre te le dovrei pagare? Senti bella, chi ha cenato col centauro più flatulento del bosco? Ho ancora il puzzo delle sue scorregge sotto il naso…»

«E chi ha rischiato la pelle nella trappola dello stregone lebbroso?»

«Ombrosscio» obbiettò Leuterio rialzandosi a fatica.

«Beh, sì, quello.»

«Allora io, che mi sono presa una freccia nel culo?» protestò Melina. «Il mio bellissimo culo…»

«Basta!» gridò Padre Teomondo. Il silenzio scese insieme all’eco della sua voce. «L’ingordigia è un peccato mortale. Siamo tutti fratelli agli occhi del Creatore e come tali divideremo il mazzo.»

Gli altri tre si guardarono, ignorando il mago, poi abbassarono il capo colpevolmente.

«Ascpettate, non erano quescti i pazzi» bofonchiò Leuterio.

«Come dici, rospo?»

«Credo intenda che i patti erano diversi» intervenne Bana.

«Con la tua fuga i patti sono cambiati» gli ringhiò in faccia il mercenario. «Dai, scegli una carta e passa le altre, ce le dividiamo a giro così ognuno può prendere quelle che gli piacciono. Poi al rospo lasciamo l’ultima.»

Bana si fece scorrere i tarocchi tra le mani, guardandone le figure. Erano tutte strane e impossibili da interpretare. Ne prese una a caso e diede il mazzo al prete.

Un istante dopo Teomondo sparì.

E un urlo uccise l’aria.

Leuterio, bocca sanguinante e occhi inondati di lacrime, si gettò ai piedi di Bana: «Era la carcia delle due cizzà? Sciete fuggiti con quella?»

Lei annuì senza il coraggio di parlare.

«E lui l’ha sctrappata?»

«Non saprei» rispose confusa. «Ma fai qualcosa, no? Sei tu il mago ombroso, inseguilo, rintraccialo!»

Leuterio scosse la testa: «Mi rescta solo qualche trucchetto. I poteri più grandi sono andati persci anni fa, stavo scercando le carte proprio per recuperarli.»

Un moto di pietà attraversò il cuore di Bana: doveva essere orribile aver assaggiato la grandezza e ora ritrovarsi piccolo e inerme.

Strinse tra le dita la carta e un pensiero, quindi li infilò entrambi nel bustino e disse: «È inutile stare qui. Andiamo, sul carro c’è della caciotta e il mio stomaco grida vendetta.»

«Peccato il cinghiale sia evaporato» commentò Venusio imboccando l’uscita.

«Io ho ancora male, mi porti in braccio?» lo distrasse Melina.

Leuterio, solo, guardò i tre andarsene e quando furono lontani spostò finalmente il piede: sul tarocco che nascondeva era disegnato un satiro con un flauto.

Bana e le carte magiche

8. Lacrime e incantamenti


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– Ma come, e sarebbe finita così? Che scherzi sono questi, bardo!

– Vogliamo sapere cos’è successo a Bana! – protestò uno spaccapietre.

Sorrisi. Questo era il momento d’elargire i sorrisi più grandi: – M’avete frainteso, certo che vi narrerò che ne fu di Bana e della sua carta.

Tornati a Hipaloma i tre ripresero la loro vita: Venusio partì per una nuova missione, Melina tornò a scaldare i letti dei clienti più facoltosi e Bana ricominciò a dirigere la sua attività con inalterato vigore.

Di Leuterio non seppero più nulla, di Teomondo ancor meno. Ma l’incredibile avventura lasciò in tutti loro un ricordo indelebile: il mercenario lo portava nel cuore, Melina sul sedere e Bana sul comò. Lì, infatti, stava quell’unica carta magica e tutte le sere, mentre ritualmente cancellava il pesante trucco, ne ammirava il disegno, una meridiana sul palmo d’una mano, e una punta di rammarico la coglieva: forse il potere che nascondeva le avrebbe potuto cambiare la vita.

Non che ne temesse i possibili effetti nefasti. A impedirle di usarla era un fatto molto più banale: non sapeva come fare.

– Tu ci vuoi fregare bardo, vuoi sbatterci qui un finale che non finisce proprio niente! – mi attaccò l’oste.

– Messere, se non mi lasciate finire non vi sbatterò nessun finale. Dunque, Bana aveva ormai rinunciato a usare la carta quando un dì le capitò un cliente forestiero che si vantava a gran voce d’essere esperto di magia.

Bana allora, nella foga precedente l’amplesso, gli scucì una preziosa informazione: pareva che Malachia l’Ombroso fosse un egocentrico e usasse sempre la stessa formula magica.

Così quella stessa sera Bana si armò di coraggio, prese la carta tra le mani, chiuse gli occhi e strappandola disse: «Malachia è il più grande che ci sia!»

Lì per lì, oltre a un lieve capogiro, nulla le parve fosse accaduto. Si apprestò allora a rimettere le due metà là dove erano rimaste per mesi. Ma quando si vide riflessa nello specchio comprese l’immenso potere dell’incantesimo che aveva appena formulato e grosse lacrime rigarono il suo volto.

Si narra che quando, un anno dopo la loro avventura, Venusio, diventato fortuitamente padrone di un castello, fece ritorno a Hipaloma, a stento riconobbe Bana. La prostituta che gli aveva rubato il cuore, infatti, si presentò ringiovanita di oltre vent’anni, tanto che Melina ora pareva sua sorella.

Grazie al miracolo magico i guadagni erano lievitati e Bana aveva visto i baiocchi accumularsi rigogliosi. Nonostante questo però, quando Venusio le chiese di seguirla lei accettò felice. Il suo piccolo sogno di vivere servita e riverita si era realizzato.

Ma se doveste capitare a Hipaloma in cerca dei piaceri della carne, non preoccupatevi: il bordello è ancora al suo posto, Melina porta avanti l’attività con inalterata passione.

– E Teomondo? – chiese qualcuno. – Dov’è finito?

– Vorrei proprio saperlo anch’io. Il potere del teletrasporto gli consentì sicuramente di fuggire molto lontano. Ma tanto potere magico in mano a un solo uomo non può passare inosservato e, chissà, magari anche voi potreste averne casualmente sentito parlare.

Tutti cominciarono a scuotere le teste, come avveniva sempre. Intonai allora il canto per aprire le loro menti:

La storia di Bana ho finito
ma ora io voglio sapere
se di un uomo avete sentito
che del cielo piega il volere.
Su forza un baiocco donate
a questo umile vostro cantore
e di ciò che sapete parlate
ché io il prete possa trovare.

Ebbe così inizio la processione che tante volte avevo già visto: sguardi inebetiti mi si affiancarono allungandomi una moneta e bisbigliando un colpevole “non so niente”.

Avevo già perso le speranze quando un mercante, dopo avermi elargito un baiocco d’oro, mi disse: – Sul Golfo Levio si parla di un vecchio che cura con un tocco della mano destra e uccide accarezzandoti con la sinistra.

Lo ringraziai e lui sorrise chiedendomi: – E Leuterio, lui dov’è finito?

Sorrisi anch’io: – È qui, davanti a te.

Bana e le carte magiche

Epilogo


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Il freddo si versava nell’aria più lesto del vino nei boccali delle osterie. Era stata un’annata tribolata per i vignaioli. L’inverno, invece, aveva trovato una strada in discesa, tanto da essersi presentato in anticipo.

Entrambi gli eventi però la lasciavano del tutto indifferente.

Stessa cosa non poteva dirsi dell’uomo che avanzava a stento sul vecchio sentiero. Stretto in un tabarro di lana grezza, fili di ghiaccio confusi sugli insistenti capelli grigi, naso paonazzo privo ormai di sensibilità, camminava imprecando le divinità e sognando liquore draconico. Ma le fatiche di quel viaggio non parevano scalfire la sua determinazione, sapeva che la meta era vicina.

E anche lei ne era consapevole.

La casa apparve dietro un’altura. Il camino fumava generoso e cespugli d’erica spruzzavano di viola l’ingresso. Il volto dell’uomo riprese vita e il suo corpo energia: finalmente l’aveva trovato. Con redivivo vigore si mise in marcia; scalando pietre, aprendosi varchi tra i rovi ed evitando escrementi di disumana natura, arrivò infine sull’uscio agognato.

Lei si accese una sigaretta: voleva gustarsi la scena fino in fondo.

Il campanaccio vibrò nell’atmosfera gelida. Seguirono dei passi, un brontolio catarroso e un cigolio di porta. Gli occhi dell’uomo incrociarono le cataratte del vecchio. La sua bocca, riconoscendolo, piegò in un sorriso: «Salve, Teomondo.»

«Salve a te Leuterio, ti stavo aspettando» lo accolse il vecchio.

«Come si aspetta la morte» replicò lui congiungendo le mani.

Lei, sentendosi chiamata in causa, spense la sigaretta e afferrò la falce: mancava poco.

Le dita di Leuterio si mossero veloci e parvero diventare lama mentre il pugnale usciva dalla manica per scagliarsi sul corpo del vecchio. Corpo però che era già sparito, per materializzarsi alle sue spalle.

Morte assunse la postura: si poteva dire che aspettasse quel momento da anni, anche se per lei il tempo era privo di significato.

«È ancora presto.»

Quella voce la fece trasalire. E non era cosa da tutti farla trasalire. Si voltò: un alone informe d’oscurità le si fece incontro, perforandola con occhi di brace.

«Malachia, cosa fai qui?»

«Sono venuto per lo spettacolo, sono gli ultimi depositari della mia magia, quelli.»

«So bene chi sono: stregoni!»

L’ombra al suo fianco rise e l’aria si fece ancora più gelida: «Apprendisti, direi…»

In risposta a quella affermazione un boato venne dalla casa. Attraverso una nuvola di fumo emersero due figure: l’uomo pareva affaticato, il vecchio sorrideva.

«Questa cos’era, polvere di fuoco? Leuterio, amico mio, le tue capacità magiche erano già povere quando ci siamo conosciuti, come pensi di battermi ora che da venticinque anni coltivo le arti del maestro?»

«Quelle arti erano destinate a me!» reagì rabbioso ma impotente l’uomo.

L’anziano stregone scoppiò in una sonora risata.

L’ombra fece altrettanto.

«Cosa ci trovi di così divertente?»

«Inutile chiederlo Morte, tu non puoi comprendere l’ironia della situazione.»

Morte mise le sue orbite vuote nelle braci del viso fumoso: «Spiegami.»

«Capirai, un attimo di pazienza.»

Laggiù, nel mondo dei vivi, l’uomo parve irritato da tanta ironia, i suoi occhi si fecero torvi e un alone di rabbia circondò il suo corpo mentre bisbigliava parole inintelligibili.

«Scusami, ora devo proprio lasciarti,» ringhiò in saluto l’ombra di Malachia, prima di lanciarsi verso i due contendenti.

Avvenne in un attimo: l’oscurità avvinghiò il corpo di Leuterio fino a diventarne parte. Teomondo, paralizzato dal terrore, non riuscì a muovere un muscolo e inerme subì i colpi fatali scagliati dal suo nemico.

Un soffio dopo si trovò al cospetto di Morte: «Merda… Cos’è successo?»

«Ha evocato il vostro maestro.»

«Pazzo, lo distruggerà!»

«Non so se augurarmelo o meno.» Ma un istante dopo un altro spirito apparve al suo fianco: era quel Leuterio che da cinque lustri attendeva.

L’involucro dell’uomo, ora occupato da colui che fu Malachia l’Ombroso, si rivolse ai tre abitanti dell’oltretomba e strizzò loro l’occhio, poi si allontanò fischiettando nell’atmosfera gelida.

Morte scosse il capo, affranta: «Odio gli stregoni!»



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